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Paola Ronco: «Tra minigonne e donne violentate, si scarica le responsabilità su chi subisce»

La scrittrice contesta una cultura che sposta sempre l'attenzione sulle donne: «Questo modello offende anche i tanti maschi che sanno distinguere. Ma ha responsabilità pure il giornalismo»

Paola Ronco: «Tra minigonne e donne violentate, si scarica le responsabilità su chi subisce»
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20 Settembre 2020 - 17.19


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di Chiara Zanini

Paola Ronco è una scrittrice nata a Torino che vive a Genova. È stata finalista al Premio Calvino nel 2006 con A mani alzate. Nel 2009 ha pubblicato il romanzo Corpi estranei (Perdisa Pop), seguito nel 2013 dal romanzo La luce che illumina il mondo (Indiana). Suoi racconti sono apparsi su riviste on line e in varie antologie, tra cui Tutti giù all’inferno (Giulio Perrone, 2006) e Love out (Transeuropa, 2012) Il sodalizio con Antonio Paolacci ha dato vita a Nuvole barocche, edito da Piemme, che ha vinto il Premio NebbiaGialla 2019, il premio Giallo al centro ed è stato opzionato per diventare una serie tv. Nel 2020 Paolacci e Ronco hanno pubblicato con Piemme Il punto di vista di Dio (pp. 352, € 17,90), il cui protagonista è di nuovo Paolo Nigra. Abbiamo intervistato Paola Ronco in merito al dibattito sull’uso della minigonna.

Qual è stata la sua reazione di fronte agli ennesimi giudizi che attribuiscono all’uso della minigonna la responsabilità di ricevere attenzioni non richieste, molestie o altre forme di violenza? Il caso del liceo romano Socrate è solo l’ultimo in ordine di arrivo.
Subito, a caldo, mi ha preso un grande sconforto, anche perché la notizia è stata il culmine di una specie di escalation: dal modo di definire due ragazzine stuprate come ‘le inglesine’, alla pena ridotta per il marito stupratore, perché secondo la sentenza era ‘esasperato’ dalla condotta troppo disinvolta della vittima, fino alla preside che ha richiesto l’uso della gonna al ginocchio a scuola per le studentesse, per veicolare un fantomatico maggiore rispetto per il corpo femminile. Questo solo negli ultimi giorni.
Pare che, nelle ultime ore, ci siano state parziali smentite alla notizia in sé, e pare che la vicepreside abbia chiesto anche agli studenti maschi un abbigliamento sobrio, ma questo non cambia il discorso generale: l’abbigliamento di chiunque non giustifica né le occhiate viscide, per di più di docenti che dovrebbero avere un ruolo molto preciso, né tantomeno le molestie. Questo perenne spostare l’attenzione da chi si rende responsabile di un comportamento sgradito a chi quel comportamento lo subisce, nascondendosi dietro un rassegnato ‘purtroppo i maschi sono fatti così, quindi meglio non dare nell’occhio’, è davvero un modello non più sopportabile. Trovo anche fuori fuoco i vari commenti che sottolineano come ‘ci si dovrebbe vestire sempre in modo consono’, perché non è questione di dress code, quanto di continuare ad attribuire una malizia a chi decide di vestirsi nel modo che preferisce, con la logica conclusione che ‘non ci si può lamentare’ se poi arriva l’occhiata laida o la molestia. Tra le altre cose, direi che è offensivo anche per un numero molto alto di maschi decenti, che sanno distinguere un complimento da una molestia, e sono perfettamente in grado di capire se le loro attenzioni sono gradite oppure no.
Quale pensa debba essere il ruolo di chi, come Lei, fa dell’uso della parola una professione? (Mi riferisco anche ad altri comportamenti insultanti come le esternazioni razziste)
Chi per mestiere usa le parole ha un grande potere e, per citare Spiderman, una grande responsabilità. Uno dei grandi problemi che ci troviamo ad avere, per esempio, è anche la progressiva mortificazione del mestiere giornalistico, che dovrebbe essere uno dei pilastri della democrazia: abbiamo un bisogno vitale di inchieste, di domande scomode fatte a chi ha un ruolo pubblico, di professionalità, mentre troppo spesso ci ritroviamo a leggere comunicati stampa copiati e incollati, e interviste inginocchiate. Molte dichiarazioni che pretendono di essere ‘provocatorie’ sono fatte apposta per far parlare di sé, e troppo spesso i media danno loro un grande risalto, senza sfumature critiche, contribuendo a volte ad avallare atteggiamenti e parole che sono semplicemente inaccettabili. Non credo nella censura, ma credo che chi è un personaggio pubblico dovrebbe essere responsabile di quello che dice, e ne dovrebbe rispondere in maniera precisa e senza sconti.
Trova che il fatto di essere una donna e un uomo porti nella coppia letteraria Paolacci-Ronco un confronto proficuo nella costruzione di storie e personaggi?
Sicuramente, ed è molto stimolante confrontare le nostre sensibilità per trovare un equilibrio che faccia funzionare le storie che vogliamo raccontare. Nel nostro caso, essendo anche compagni di vita e condividendo la condizione di scrittori e insieme cittadini attivi nella nostra società, siamo molto contenti di poter portare avanti il nostro progetto comune. La nostra serie di romanzi gialli ci permette anche di affrontare tematiche molto attuali e complesse, come per esempio quelle che riguardano il pregiudizio, pur con un registro spesso divertente.
Che tipo di azioni dobbiamo chiedere alla politica per combattere la cultura dello stupro?
Pare scontato dirlo, ma non si ripete mai abbastanza la grande importanza dell’istruzione, fin dalla tenera età, e il ruolo di un sistema educativo che dovrebbe raggiungere chiunque, non essere una prerogativa delle classi più privilegiate. La politica dovrebbe smettere di andare dietro alle voci più retrive della società, e decidersi a promuovere una sana educazione sessuale e affettiva, di cui abbiamo davvero un gran bisogno. Chiunque rivesta un ruolo politico, inoltre, dovrebbe sentire intera la grande responsabilità di avere una voce forte, dalla grande eco: sarebbe davvero ora di cominciare a misurare l’importanza delle parole e delle scelte pubbliche, e l’effetto che possono avere su milioni di persone.

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