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Coronavirus: non è il momento delle polemiche, ripensiamo alla ricostruzione dopo la guerra

Le istituzioni europee e internazionali, imperfette, non vanno delegittimate. E vanno scongiurati nazionalismi e sovranismi autoritari

Coronavirus: non è il momento delle polemiche, ripensiamo alla ricostruzione dopo la guerra
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10 Marzo 2020 - 18.22


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Antonio Salvati

È un momento decisamente grave e difficile. Avvertiamo tutti chiaramente la precarietà delle nostre esistenze e, soprattutto, l’incertezza sul futuro. È urgente e indispensabile fermare il contagio. Tuttavia, è necessario – potremmo dire vitale – coltivare la speranza di nuove soluzioni, di nuove idee, di nuovi modi di vivere. Non possiamo permetterci di farci travolgere dal coronavirus. La crisi va gestita seguendo le indicazioni di chi ha la responsabilità istituzionale che si avvale dei consigli degli esperti. Eppure dobbiamo dire con forza che siamo di fronte ad un’occasione importante, quella di una profonda rigenerazione di cui la nostra società ha da tempo bisogno. Ognuno è più solo nel mare della vita.

Mentre scriviamo la crescita delle infezioni resta alta, aumentano le vittime anche se – va sottolineato – contestualmente le guarigioni aumentano. Nessuno può prevedere quando le misure straordinarie adottate dal governo saranno revocate. Abbiamo bisogno di una politica economica eccezionale. Sono già note alcune ripercussioni economiche negative relative alla crisi delle diverse catene produttive globali e al crollo dei consumi (drammatico quello del settore turistico fino a settori, ingiustamente ritenuti minori, come quelli gravitanti nel campo della cultura e dell’organizzazione del mondo dello spettacolo). Alcuni storici hanno rievocato la famigerata “economia di guerra”, intendendo con essa l’adeguamento del sistema economico alle necessità di un momento straordinario come quello bellico. Mai come oggi si è parlato diffusamente di resilienza, cioè la capacità di operare per rendere la nostra società e la nostra economia più capaci di resistere agli choc.

In un tempo in cui i governi e le istituzioni sono fortemente sotto stress, un rischio che dobbiamo decisamente scongiurare è quello della delegittimazione delle istituzioni stesse, in particolare modo di quelle europee ed internazionali che – pur imperfette e con diversi oggettivi limiti – in molti casi hanno contribuito allo sviluppo, al benessere di milioni di persone, nonché al mantenimento della pace. Ci sono momenti in cui non è possibile fare come si vuole. Ci sono momenti in cui stringersi assieme, non fare polemiche di parte e avere disciplina. Per scongiurare – al termine dell’emergenza sanitaria – lo sviluppo dei nazionalismi (anche sanitari) e dei cosiddetti sovranismi autoritari, il ritorno del protezionismo in ambito economico (non è difficile immaginare che avranno nuovi argomenti che, seppur fallaci, appariranno assai persuasivi e convincenti), serve dar forza al principio che non se ne esce da soli. Nessun approccio del tipo “far da soli”.

In termini meno laici ma cristiani, diremmo non ci si salva da soli. Ognuno, dal proprio posto, può fare molto assumendosi le proprie responsabilità, sviluppando il proprio senso civico. Il rischio è generare ulteriore lacerazione e frammentazione, più di quanto non fosse agli inizi di quest’anno. La cooperazione è l’unica via percorribile per garantire un futuro di pace e benessere. Non è facile, lo sappiamo. La storia ci viene incontro con i suoi insegnamenti. Penso all’Italia della Ricostruzione, con l’iniziale maiuscola. Della Ricostruzione non si parla mai, i giovani non sanno cosa sia stata. Avevamo perso la guerra due volte e ci eravamo lacerati in una sanguinosa guerra civile. Il bilancio fu spaventoso: 300 mila militari morti, 150 mila civili. In ogni famiglia si era aperto un vuoto. Gli italiani avevano sofferto moltissimo e continuavano a soffrire la fame, il freddo, le malattie. Eppure sapevano lavorare e divertirsi. Faticare dodici ore al giorno e uscire la sera a ballare. Appassionarsi alla politica. Sorridere. Ha ricordato Aldo Cazzullo nel suo volume Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione (Mondadori 2019, pp. 254, € 13): «Eppure eravamo più felici allora di adesso. Al mattino ci si diceva: “Speriamo che oggi succeda qualcosa”. Ora ci si dice: “Speriamo che oggi non succeda nulla”». Bisogna recuperare quello spirito insieme all’arte del convivere, come direbbe Andrea Riccardi.

Dunque, un tempo opportuno in un periodo liquido, in cui si sono dissolte reti sociali e relazionali sperimentate. Regnano spesso l’incertezza, la confusione e soprattutto la paura. Ognuno è più solo nel mare della vita. Le risposte positive però non mancano, ha giustamente ricordato Marco Impagliazzo nei giorni scorsi sulle pagine del quotidiano Avvenire. Infatti, «l’emergenza ha fatto emergere la centralità delle reti di prossimità e di solidarietà oggi ancora più essenziali per contrastare la solitudine e l’isolamento di tanti. La vasta realtà di persone che appartengono a queste reti, espressione in gran parte del mondo cattolico, sono, generosamente, all’opera perché nessuna delle persone più vulnerabili e fragili rimanga sola in questa emergenza».

La tecnologia può far molto per mantenere i legami sociali quando le possibilità di incontrarsi sono limitate. Ma principalmente in momenti di profonda vulnerabilità occorre riscoprire la nostra forza potenziale – di relazione, cura, ricucitura –, la stessa di cui sta dando prova da settimane il personale medico e paramedico. Ciascuno può essere una presenza amica, rafforzare quei legami di solidarietà sul territorio che rappresentano un vero e proprio sostegno vitale e una grande risorsa per il futuro.

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