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Boldrini: “Sul Coronavirus la tv dà il peggio, bene le radio, sorpresa dai social”

Lo studioso di giornalismo valuta come si comportano i media: “Per quasi tutta la tv il dolore è spettacolo, i giornali informano ma qualche testata fa solo propaganda”

Boldrini: “Sul Coronavirus la tv dà il peggio, bene le radio, sorpresa dai social”
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25 Febbraio 2020 - 15.11


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La tv italiana, Rai compresa, in larga misura finora rende il Coronavirus un mega-spettacolo permanente per attrarre audience e speculare sulla paura più che informare; i giornali su carta stampata cercano per la gran parte di dare notizie e far riflettere tranne qualche testata di destra che vira tutto nella propaganda politica; le radio fanno un buon lavoro con punte d’eccellenza; a sorpresa, ma non è una casualità, nei social le fake news e le bufale non hanno dilagato.
A tracciare un quadro dello scenario mediatico nei giorni dell’epidemia è Maurizio Boldrini, autore di numerosi libri sui media che ha collaborato a molte testate tra cui globalist.it. Lo scrittore e giornalista insegna Teorie e Tecniche del linguaggio giornalistico e Comunicazione istituzionale all’Università di Siena e ha sempre mantenuto un occhio vigile sull’universo mediatico, internet compreso. Da studioso premette: questa chiacchierata non è un’analisi approfondita, non è un giudizio su testi pubblicati, è il frutto di uno sguardo rapido su un processo in divenire.

Boldrini, si può dare una valutazione complessiva, almeno iniziale, su come i media italiani stanno informando sul Coronavirus?
Una valutazione deve essere differenziata. In generale in una prima fase la dimensione della peste e del contagio inteso come spettacolo del dolore ha prevalso in tutti i mezzi principali e soprattutto nella tv. La prima fase si è caratterizzata dalla più classica ricerca dello scoop, del caso clamoroso, nella caccia a identificare per primi la persona infetta, ad avere il collegamento con l’esterno degli ospedali: era una impostazione televisiva che mirava a spettacolarizzare e ha coinvolto tutti, anche i giornali di carta stampata e i siti online, ma principalmente l’ha usata la tv e, stavolta in minor modo, i social media: è come se sui social ci fosse stata una tendenza a verificare di più i fatti, come se si fossero rovesciati i ruoli, perché nei media tradizionali l’idea della peste globale, dell’apocalisse, ha dominato tutta la prima fase.

Con quali effetti?
Si mescolano i formati tradizionali: spettacolo, informazione, intrattenimento. Si sono viste trasmissioni monografiche, ma in molti programmi abbiamo visto incursioni per cui si interrompeva il talk show esclamando “abbiamo un caso a Biella, uno a Udine”, tanto per dire. Finché non è accaduto un fatto particolare specie in quelli che chiamiamo “hot media”, i media “anziani” come stampa e tv.

Cosa è accaduto?
È successo che il contagio è divenuto un elemento di contenitore televisivo: ha contaminato i generi, se scusate la battuta. Così Barbara d’Urso ha fatto uno show particolarmente pesante partendo dallo studio vuoto diventato una spettacolarizzazione della tragedia. In sostanza si dice: “vedete in che condizioni siamo?”, “perfino la tv è costretta a subire questo fenomeno”.

Vale per tutte le tv?
Ci sono rare eccezioni. Rainews24, Sky, i canali non generalisti, hanno tentato di fare un’informazione più attenta. Invece anche su una rete come Rai3, per esempio ad “Agorà”, ho visto cose che trovo invereconde. L’epidemia viene narrata come fosse cronaca nera, ma non lo è.

Che linguaggio ha usato la televisione generalista?
In tv l’emozione è legata alle immagini per cui fa vedere un paese circondato dalle forze di polizia, il supermercato con gli scaffali vuoti. È un modello di narrazione tipicamente visivo in cui le parole danno enfasi ma l’elemento visivo domina. La percezione della virulenza è un fatto eminentemente psicologico, quindi l’immagine sull’idea percepita ha un effetto stravolgente. Si arriva fino a casi di per sé straordinari come quel simpatico professore in una diretta tv, proprio stamani: era l’unico che sapeva usare le tecnologie per la diretta sul telefonino, tanto che lasciava dichiarazioni in tutto il mondo come fosse diventato una celebrità per semplice fatto di essere in uno dei paesi chiusi, in zona rossa. Si fa l’info-intrattenimento, si spettacolarizza, si usano in modo stereotipato gli inviati, si carica l’enfasi, l’effetto verità. La tv addomesticata da anni di tv berlusconiania ha fatto il suo effetto.

In questa narrazione i politici si sono inseriti?
In particolare in tv una certa politica di opposizione, come Salvini e i salviniani, ha tentato di strumentalizzare l’epidemia ma man mano ha avuto meno spazio. Alle tv serve mostrare lo spettacolo. Ai politici si sono sostituiti i tecnici. Ma anche tra esperti, medici e virologi vi sono persone preparate e altre no. Quando sei costretto a chiamare un esercito nuovo, richiami tutti quindi ci scappa chi dice cose sagge e chi propaga fake news. Ci sono troppe voci, ma i media hanno bisogno di un procedimento opposto a quello delle istituzioni.

Allora come hanno agito finora le istituzioni, sul fronte comunicativo?
L’istituzione tende a uniformare procedimenti e delibere, a dare un senso unitario, a dare ordine, e di questo fa parte il tentativo di regolare le Regioni. Le tv invece moltiplicano pareri e opinioni: molti autorevoli, altri no. Per tanti è un’occasione rara per apparire in tv, come diceva Beniamino Placido esistono mediaticamente. Solo stamani avrò ascoltato 25 esperti in tre reti diverse.

I giornali, la carta stampata?
Testate come Libero e la Verità traducono tutto quanto toccano in odio, forzano la polemica politica. C’era da aspettarselo: i giornali di tendenza come loro giocano sul malpancismo, su chi non si adegua a una ipotesi di concordia nazionale, la quale o cresce anche dal basso e la gente si sente unita dalla disgrazia altrimenti non c’è appello che può supplire. A differenza del senso di unità scattato per esempio con i terremoti, qui si cerca in tutti i modi, visivamente e nel racconto scritto, di non far gruppo, di avere tanti individui separati. Anche per l’aspetto tecnico: stare isolati, non stringere le mani lavarsele il più possibile, parlare a distanza. Ognuno si trova solo di fronte al disagio e i giornali dovrebbero spiegare di più.

Però molti giornali spiegano molto.
Non sono tutti uguali infatti: molte testate affrontano il discorso seriamente, riflettono sull’impatto economico, tanto per fare un esempio. Tra i giornali c’è molta diversificazione.

La radio?
Forse è il medium che si sta comportando meglio nell’intera vicenda. Rai Radio 3 è eccellente.

I social fanno parte del circuito comunicativo.
Straordinariamente è la tv e non sono i social, che sembravano essere diventati il regno delle fake news, a dare il peggio. Forse perché tutti hanno pensato a una grande fake news, forse perché gli abitanti della rete sono più smaliziati, trovo minor tremore in rete. A titolo personale: ho quattromila amici, è vero sono quasi tutti democratici, ma non vedo persone che speculano, almeno tra chi conosco anche solo via web. Va riconosciuto che il tentativo di impedire l’infodemia, l’epidemia dell’informazione, deriva da un fatto: per la prima volta i ministeri della Salute e dell’Istruzione e tante aziende sanitarie locali sono diventate come mai in precedenza i più grandi divulgatori di notizie certe, impegnati a combattere allarmismi e fake news.

Si è registrato un mutamento?
Sì e molto importante. In altri casi le fake news hanno transitato liberamente in rete perché nessuno le combatteva. Stavolta gli stessi ministri e più in generale il sistema sanitario nazionale ha agito in forte contrasto allo svilupparsi di questa “infodemia”. Probabilmente aver sperimentato la diffusione di notizie false, penso alle polemiche sui vaccini, ha portato a considerare finalmente internet e i social alla stregua dei grandi mezzi di comunicazione di massa: non li sottovalutano. Occorre però concludere con un’ultima considerazione.

Ovvero?
Un tempo il giornalismo dipendeva dall’arena pubblica, dalla politica. Oggi il sistema dei media integrati è diventato esso stesso un’istituzione tra le istituzioni, anzi è la più importante tanto che l’economia e la politica si piegano alla logica dei media i quali comandano sempre di più: sono i media oggi a “dettare l’agenda”, come si dice.

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