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Stefano Bartezzaghi e la banalità del voler essere originali (in rete)

Perché sui social scriviamo cose spesso scontate? Per la smania dell’originalità, spiega in un libro molto attento lo studioso di semiotica che non ha mai dimenticato Umberto Eco

Stefano Bartezzaghi e la banalità del voler essere originali (in rete)
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17 Gennaio 2020 - 11.32


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Antonio Salvati

Ripetiamo spesso che i social network sono il terreno privilegiato delle banalità. Un ambito, luoghi virtuali e realissimi, dove di banalità ce n’è a frotte, ma dove, nelle stesso tempo, ci si sforza sbandierare il vessillo dell’originalità. Chi opera o segue il vasto mondo dei social non può tralasciare la lettura, verrebbe da dire lo studio, dell’ultimo libro di Stefano Bartezzaghi Banalità. Luoghi comuni, semiotica, social network (Bompiani 2019, pp. 268, € 17).

La banalità vista come una sorta di demone, ossia qualcosa che viene temuto o che si impadronisce di noi e il cui timore o il cui dominio determinano i nostri atti. Per Bartezzaghi la paura di essere banali – insieme all’inconsapevolezza di quando lo si è – favorisce molti dei nostri comportamenti sociali, fuori e dentro la Rete. La pressione sociale ci invita a essere originali. Se ne era accorto anche Giacomo Leopardi che nei suoi Pensieri dedicava all’originalità il novantasettesimo fra questi: «Quegli uomini che i francesi chiamano originali, non solamente non sono rari, ma sono tanto comuni che sto per dire che la cosa più rara nella società è di trovare un uomo che veramente non sia, come si dice, un originale».
La smania dell’originalità è diventata parossistica e ovviamente non ci accorgiamo che la banalità consiste in ciò che è comune a tutti. Quindi il desiderio di essere originale, se è comune a tutti, diventa in sé banale. Questo è il paradosso in cui ci dibattiamo, fra snob, trasgressivi, eccentrici e gregge. Ognuno partecipa di ogni gruppo, spesso contemporaneamente. Spiega Bartezzaghi, docente di Semiotica e teorie della creatività all’università Iulm di Milano, che «la banalità è la marca negativa che compete a ciò che non si distingue da ciò che tutti sanno già e sanno di sapere. Il notoriamente noto, ciò che è noto essere noto. In ogni bussola, l’oscillazione dell’ago è apparente: l’ago è fisso, a cambiare è l’orientamento dell’apparecchio» e «le attribuzioni di distinzione e banalità sono fortemente soggette ai cambiamenti di orientamento, mentre l’ago dell’originalità continua a indicare un suo nord magnetico, remoto e anzi astratto».
Del suo maestro, Umberto Eco, Stefano Bartezzaghi ha appreso l’interesse per gli ambiti in cui più facilmente gli individui si radunano numerosi per disperdersi nella massa: «la tv, che Eco ha analizzato a fondo, è diventata iper banale. Oggi sono i social network i nuovi protagonisti della banalità, il luogo privilegiato per studiarla». Oggi Eco analizzerebbe con interesse gli innumerevoli esempi della boutade della “comunicazione leggera”: dalla Brexit al possibile smantellamento dell’euro; dal ritorno dei dazi e del razzismo contro i neri e antisemitismo alla messa in discussione di molte conquiste in termini di diritti civili; dal prestigio attribuito alla mancanza di cultura e all’ignoranza alla perdita di prestigio della cultura.
Del resto, spiega l’autore, il vintage, la nostalgia, la chiusura identitaria, l’idea stessa di “radici” sono altrettante manifestazioni, diverse fra loro, di questo andamento: cosa che parrebbe contraddire la legge della costante valorizzazione positiva del nuovo, se non fosse che (anche grazie alla dequalificazione della cultura) questo ritorno al passato viene presentato come avanzamento verso il futuro. Eco nel 2006 ci aveva avvisato: «qualcosa di nuovo, almeno nel nostro paese, è avvenuto – qualcosa che non era ancora avvenuto prima: l’instaurazione di una forma di governo basata sull’appello populistico via media».
È dai tempi dell’invenzione del telefono che si dà la colpa di ogni male all’ultimo medium che è stato inventato. Dire che Facebook ci ha reso banali è come dire che se siamo grassi è colpa della Nutella: è cioè una grossa stupidaggine, direbbe Bartezzaghi. È evidente che l’allargamento delle opportunità di essere informati e conoscere rappresenta senza ombra di dubbio uno dei più grandi vantaggi di Internet. Quelli della mia generazione, i cinquantenni, ben ricordano che l’accesso al sapere era più lento, faticoso, oneroso in tempo e denaro, tale da richiedere dedizione non comune. Occorreva avere costose e ingombranti opere in più volumi oppure frequentare biblioteche anche solo per raggiungere semplici nozioni enciclopediche.
Oggi le stesse opere con Internet spesso sono diventate immediatamente disponibili e in consultazione gratuita (come Treccani e Britannica); altre sono state progettate direttamente sul web (come Wikipedia). Soprattutto – ricorda l’autore -. per «conoscere il pensiero di un’autorità, in qualsiasi campo del sapere, non è più strettamente necessario rivolgersi a libri e riviste, magari di difficile reperibilità e in lingua originale. Per qualsiasi teoria, ipotesi o semplice opinione esiste certamente almeno una pagina web in cui questa è esposta almeno in forma compendiata, magari a cura proprio di chi in origine l’ha formulata. Solo chi non ha vissuto la Rete negli anni successivi al Duemila (quelli che hanno portato alla frammentazione con i blog e alla polverizzazione con i social) può però continuare a pensare che queste siano tutte e soltanto buone notizie».
Il commercio illecito e la pirateria di dati personali consentono di intervenire sulla formazione del senso comune sino al punto di influenzare, come le cronache raccontano, l’esito di elezioni politiche di rilievo. È “l’algoritmo”: il nostro spauracchio operativo. Perché – si chiede Bartezzaghi – ci consegniamo ad esso? «Succede perché siamo stupidi, o stupidamente imprudenti? Potremmo non esserlo e allora staremmo più in guardia? Basterebbe un soprassalto di orgoglio, un riscatto collettivo, un “ritorno alla razionalità” per scongiurare i danni dei social? Dobbiamo pensare che sia avvenuta una diluizione, per cui la disponibilità del “pensiero razionale” si è estesa e con questo ne è diminuita l’intensità? Quel che è certo è che la maggiore accessibilità di informazioni, nozioni e anche concetti articolati non ha diminuito il nostro tasso di stupidità; si può anzi sospettare che l’abbia aumentato».
Si può lecitamente dubitare che la Rete dia informazioni sufficienti e attendibili su di sé. Di sé, in particolare, dice di tutto e il contrario di tutto: come potremmo selezionare, nella Rete, le fonti attendibili a proposito, innanzitutto, della Rete stessa? Nel mondo globale di oggi, si ha la sensazione di vedere tutto quello che si vuole e di poter raggiungere tutto, direbbe lo storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi. Ma avere tante notizie non vuol dire elaborare un pensiero o una visione. Vediamo tanto, ma senza visione. Abbiamo tante informazioni ma senza una cultura che le ordini e le filtri, che dia le priorità, che tracci una prospettiva. Ciò aumenta lo spaesamento e provoca false impressioni.
Si può sopravvivere alla banalità? Per consolarsi del pensiero di essere banali, si pensi che nessuno è davvero banale, visto da vicino. Coltivare le proprie caratteristiche peculiari, avere qualche segno di distinzione, eccellere in qualcosa è alla portata di tutti, rassicura Bartezzaghi. Voler essere originali in ogni evenienza è fortemente sconsigliabile. Sicuramente ci saranno state circostanze in cui Albert Einstein ha pronunciato una stupidaggine o in cui Lord Brummell ha sbagliato un accostamento di colori. L’importante – è il consiglio dell’autore – non è evitare sempre di essere banali; l’importante è fare la differenza nel momento in cui occorre.

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