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Combattere lo sfruttamento con i diritti del lavoro e abolizionismo contro il neo-schiavismo

Il fenomeno della schiavitù di tanti migranti e donne corrode i diritti di tutti. Lo scrive il docente di filosofia del diritto Thomas Casadei nel testo che qui pubblichiamo

Combattere lo sfruttamento con i diritti del lavoro e abolizionismo contro il neo-schiavismo
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22 Agosto 2018 - 10.29


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Quante volte avrete letto o sentito di nuovi schiavi? Nella nostra modernità è diffuso e taciuto il ricorso al super-sfruttamento delle persone, quando non si tratta spesso di schiavitù vera e propria, mascherata, spesso di natura sessuale se parliamo di donne e ragazze. In Italia ne parliamo quando lavoranti-migranti che raccolgono ortaggi per pochi euro al giorno muoiono in furgoncini stipati all’inverosimile dai “caporali”. Contro questo fenomeno in gran crescita serve un nuovo “abolizionismo” per restituire o dare diritti a tutti: serve giustizia sociale per il bene di tutti, non servono invece barriere ai confini se non a difendere gli interessi di pochi e non di chi lavora. Lo scrive, in estrema sintesi, Thomas Casadei in “Tra storia e teoria giuridica: per un inquadramento dei caratteri della schiavitù contemporanea”, saggio di cui pubblichiamo, su concessione dell’autore, un ampio estratto e contenuto in “Nuove e antiche forme di schiavitù” (Napoli, Editoriale scientifica, 2018, pp. 240, euro 15) curato da Mauro Simonazzi e da Casadei stesso. L’autore, professore associato di Filosofia del diritto all’Università di Modena e Reggio Emilia, si è occupato a lungo e ampiamente dell’argomento.

Thomas Casadei: diritti negati, schiavi, migranti

La questione della schiavitù può essere affrontata da diverse angolazioni prospettiche: mediante l’indagine storica (ripercorrendone le sue varie fasi con riferimento ai diversi contesti); lo scandaglio teorico-giuridico (essa è stata a lungo un istituto-cardine degli ordinamenti e degli assetti istituzionali); la disamina di inedite configurazioni (connesse a nuovi sistemi di controllo e assoggettamento e che per essere comprese rinviano alla messa in campo di strumenti di natura sociologica).
[…] [R]isulta particolarmente importante indagare le «forme di asservimento del lavoro migrante» mostrando come l’«illegalizzazione» assuma un significato che va ben al di là del numero degli “irregolari” e come in essa sia possibile cogliere una fra le più significative manifestazioni attuali della violenza legale che, nelle sue diverse forme, è sempre stata necessaria ad assicurare ai sistemi economici occidentali la quota di lavoro “servile” o “semi-servile” dalla quale hanno continuato a dipendere.
Come è stato osservato, la marginalità del migrante riproduce la sua irregolarità “istituzionale” e ne è a sua volta riprodotta, e proprio tale condizione, sovente invisibile, manifesta i tratti tipici del dominio schiavile .
Molto di rado, e solo quando accadono eventi tragici come la morte di un migrante legata al contesto lavorativo in cui era inserito, l’attenzione viene rivolta per un momento alla visione delle migrazioni come forma di grave sfruttamento e alla tratta di esseri umani a fini di riduzione in schiavitù .
Questi fenomeni, nei paesi di arrivo, rappresentano strutturalmente l’altra faccia delle migrazioni in Europa.
Donne e bambini segregati
In questo contesto esiste un particolare gruppo di donne migranti vittime di tratta, le cui storie e le cui condizioni di vita restano spesso ancora più taciute che per gli altri .
Al lavoro forzato e disumanizzante (la ben nota schiavitù da lavoro ) e al fenomeno della tratta estesa su scala globale (che ripropone oggi “rotte” che fanno della violazione “il rovescio dei diritti umani”) si affiancano inediti, specifici, caratteri della schiavitù contemporanea: basti pensare alle donne e ai bambini segregati e costretti con la violenza alla prostituzione (schiavitù sessuale) o ancora al fenomeno persistente, e anche in questo caso sottaciuto sotto il velo delle consuetudini saldamente radicate in molti paesi del mondo, dei matrimoni forzati e precoci, un fenomeno di riduzione in schiavitù costitutivamente connotato dalla violenza di genere contro le donne e le bambine .
[…]
Legittimare un nuovo abolizionismo
Un aspetto rilevante, nel contesto delle schiavitù contemporanee, è poi quello che riguarda le situazioni dei migranti e delle migranti che, alla ricerca di un lavoro, si ritrovano assai spesso vittime della criminalità organizzata e ingabbiati in forme di assoggettamento che contemplano la confisca e la segregazione del corpo, nella più completa violazione di ogni diritto umano.
Solo dalla comprensione profonda che il ruolo degli schiavi ha assunto nei diversi tipi di società e il loro ruolo nell’odierna società globale può generarsi, questa la tesi che intendo sostenere, la spinta per l’abolizionismo. E oggi credo sia decisivo legittimare e praticare un nuovo abolizionismo perché la schiavitù – nonostante sia stata abolita sul piano giuridico – esiste, si espande e pare avere un grande “avvenire” come ha affermato Étienne Balibar .
[…]
Pratiche di segregazione, di marginalizzazione, nonché di utilizzo a fini economici e di estremo e violento assoggettamento, rispetto a persone concepite come «rifiuti», «scarti d’umanità» vanno allora individuate e contrastate.
Per ragioni di efficacia nell’intervento – dunque adottando un approccio realistico – penso sia bene distinguere allora, come è ormai consolidato nella letteratura italiana su questi temi , tra varie forme di violazione dei diritti quali lo sfruttamento, il grave sfruttamento (o ipersfruttamento), la riduzione in schiavitù (con la possibilità di individuare una forma ulteriore tra il grave sfruttamento e la riduzione in schiavitù quale il para-schiavismo).
Questa partizione per quanto ormai assodata in dottrina (in Italia) è, a tutt’oggi, motivo di dibattito tra gli studiosi della tematica e i confini tra queste diverse forme non sono certamente così netti e definiti in modo inequivocabile.

La condanna di alcuni imprenditori agricoli di Nardò
In tale contesto particolarmente significativa è la sentenza del 13 luglio 2017 che ha riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù a carico di alcuni imprenditori agricoli. Si tratta del punto di arrivo di un cammino iniziato nel 2011, a Nardò, in provincia di Lecce, con lo sciopero di un mese dei braccianti alloggiati all’interno della masseria Boncuri e guidati dall’ingegnere camerunense Yves Sagnet . La riduzione in schiavitù è stata contestata come reato a 11 imputati dalla sentenza pronunciata il 13 luglio scorso dai giudici della Corte di Assise del Tribunale di Lecce nel processo nato dall’inchiesta Sabr, dal nome di uno dei caporali che organizzava buona parte del lavoro agricolo stagionale nel territorio di Nardò.
Come è stato osservato, «lo sfruttamento lavorativo nel territorio di Nardò non è certo una novità: si registra ininterrottamente da oltre vent’anni, con un’intensità che nel tempo ha continuato a crescere, a seguito della modificazione di diversi fattori che hanno a che vedere tanto con la struttura produttiva, con le modificazioni delle colture agricole, quanto con elementi socio-economici più generali, vale a dire con le filiere produttive e distributive del settore, la crisi economica, che ha spinto verso l’agricoltura soggetti prima impiegati nel settore industriale e in quello dei servizi nelle città del centro-nord Italia, e le ricadute sociali delle politiche migratorie, con la conseguente riconfigurazione delle presenze migranti del territorio. Nelle campagne di Nardò, come nel resto del paese, è aumentato in maniera consistente il numero di richiedenti asilo, rifugiati e titolari di altre forme di protezione – alcuni ancora formalmente nel sistema di prima o seconda accoglienza italiana, altri che vi sono comunque transitati – impiegati nella raccolta stagionale. Era un rifugiato politico anche Abdullah Mohamed, morto il 20 luglio del 2015, a soli 47 anni, mentre raccoglieva pomodori in un campo di proprietà di uno degli imputati nel processo Sabr, ora condannati in primo grado» .
La sentenza costituisce un risultato di grande importanza. Tuttavia, nelle campagne di Nardò – così come in altre zone rurali italiane ed europee (in Francia e in Spagna, in particolare) – la situazione dei lavoratori, nel complesso, non pare migliorata: il ghetto continua ad esistere, il lavoro nero continua a rappresentare la modalità prevalente di impiego e il caporalato continua ad essere il meccanismo abituale per l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro . Anche l’approvazione della recente legge contro il caporalato (la n. 199/2016), di fatto, rischia di avere scarsa possibilità di successo nel contrasto allo sfruttamento in agricoltura, perché – pur inasprendo le pene per le aziende oltre che per i caporali – è una legge che si limita ad estendere il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole, mentre non interviene sostanzialmente sulle condizioni istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono forma, tanto il caporalato, quanto, più in generale, i processi di radicale sfruttamento in agricoltura fino alla riduzione in schiavitù .
Senza diritti del lavoro si otterrà poco
Fin quando la lotta contro il caporalato non sarà associata ad una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti del lavoro, probabilmente si otterrà poco. Gli interventi sul piano penalistico – che hanno condotto il legislatore a modificare la fattispecie presente nel Codice penale nel 2003 e nel 2014 ‒ rischiano di essere insufficienti, così come pure la lotta al caporalato rischia di essere del tutto vana se non si interviene normativamente in altre direzioni (ciò vale per l’Italia ma anche per gli altri paesi europei). Da un lato, potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza, in atto da quasi un trentennio, che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali mediante un modello di sviluppo che impone “crescita” mortificando le condizioni del lavoro fino a renderlo privo di dignità ; dall’altro, intervenendo sul piano delle politiche migratorie, favorendo modalità di ingresso e permanenza in condizioni di regolarità sul territorio che mettano in discussione l’attuale sistema di (non) accoglienza così come si è riconfigurato in Italia (e in Europa) almeno dal 2011 .
Ciò implicherebbe appunto – rispetto agli assetti egemoni e dominanti – una revisione delle strutture produttive e una concezione delle migrazioni improntate a principi di giustizia sociale, anziché di profitto per pochi e di difesa dei confini (all’insegna di una “sicurezza” che è richiamata, nel discorso pubblico e politico, in modo prevalentemente strumentale e retorico).

Brano tratto da: Thomas Casadei, “Tra storia e teoria giuridica: per un inquadramento dei caratteri della schiavitù contemporanea”, in Mauro Simonazzi e Thomas Casadei (a cura di), “Nuove e antiche forme di schiavitù”, Napoli, Editoriale scientifica, 2018, pp. 240, euro 15 (il saggio è alle pp. 135-151)

 

 

 

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