Floris: perché i genitori assaltano i prof e fanno male ai figli | Culture
Top

Floris: perché i genitori assaltano i prof e fanno male ai figli

Il saggio-inchiesta “Ultimo banco” raffigura la scuola (e il Paese): gli studenti, l’istituzione, i professori. Pubblichiamo un estratto sul perché padri e madri attaccano gli insegnanti

Floris: perché i genitori assaltano i prof e fanno male ai figli
Preroll

redazione Modifica articolo

16 Giugno 2018 - 13.24


ATF

Come sta la scuola? Non sta bene. Gli studenti? I professori? Neanche loro stanno tanto bene. E i genitori? Ormai è cronaca quotidiana di docenti minacciati, denunciati, insultati, picchiati (un padre ha perfino tentato di strozzare un professore) per presunti torti ai danni dei loro intoccabili pupilli. Eppure prima bisogna sapere, occorre capire perché assistiamo a questa deriva e cosa possiamo fare. Affronta questi temi un libro che non è solo un quadro del mondo scolastico, è un quadro a vasto raggio dell’Italia di oggi: “Ultimo banco” di Giovanni Floris (SolferinoLibri, 208 pp, 15 euro). La scheda editoriale per la stampa riferisce: “Riscoprire l’importanza della scuola significa rivalutare la centralità del lavoro degli insegnanti, intercettare il disagio degli studenti, e riportare la cultura e il senso di responsabilità dalle aule scolastiche a quelle parlamentari, e in generale ai luoghi in cui si forma la coscienza del Paese”.
Una inchiesta-racconto illuminante.  Che va ben oltre la cronaca e sa approfondire. Floris l’ha affrontata “da giornalista, da genitore e da cittadino” per “ricostruire la scuola per ricostruire l’Italia”. Nato nel 1967 a Roma, esperto tra l’altro di politica ed economia, conduttore e autore prima di “Ballarò” sulla Rai e ora di “Di martedì” su La7, il giornalista nel 2016 ha pubblicato il romanzo “Quella notte sono io”. Il brano scelto è una disamina sui genitori all’assalto dei professori e sul perché di tali e ormai quotidiani attacchi. Ragioni che sono in parte nella scuola com’è concepita oggi, in parte risiedono fuori da quelle aule. Pubblichiamo l’estratto su gentile concessione dell’editore.

 

di Giovanni Floris

 

Dall’autovalutazione al «ProfAdvisor»

In teoria, è una buona idea. Dall’anno scolastico 2014/2015 è stato istituito un sistema di autovalutazione, che culmina in un Rapporto di autovalutazione (Rav) obbligatorio per ogni istituto. Serve a capire se le condizioni della scuola, dall’edificio fino al piano formativo, sono buone, a rendersi conto, prima ancora che a rendere conto ad altri, di dove e come si potrebbe migliorare. All’inizio del 2018 è balzato agli onori della cronaca per un’inchiesta di «la Repubblica» che ha reso pubbliche alcune delle autovalutazioni, in cui l’assenza da un istituto di alunni poveri, nomadi, disabili era descritta come un pregio da salvaguardare. Di certo i compilatori non avevano mostrato grande sensibilità sociale, se vi si leggeva: «Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio-economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale». Il problema non erano neanche gli immigrati, già con gli italiani bisognava stare attenti: «Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere.
Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi».
Brochure destinate ai genitori che dovevano scegliere la scuola per i figli? Materiali interni che non erano destinati al pubblico? Questionari infelici già nell’elaborazione del ministero? Comunque sia, le parole usate la dicono lunga. Anche su quanto sia difficile intendersi sul concetto di «autovalutazione».
Il Rav si compone di cinque sezioni, tutte da compilare dopo aver raccolto una mole di dati, statistiche, opinioni. Già, anche opinioni: quelle degli studenti e dei genitori. Per questi ultimi, è disponibile un «Questionario di percezione», in cui oltre a dare il loro parere sul plesso scolastico – stato delle aule, servizi, se c’è o no la carta igienica… – possono esprimersi sui docenti. Dire se secondo loro sono in grado o meno di trasmettere la loro materia, se sono disponibili, bravi a relazionarsi. Giudizi che, rigorosamente in forma anonima, restano agli atti, vanno a finire nel quadro complessivo con cui la scuola si valuta, incidono sul lavoro dei docenti stessi.
Io non apprezzo l’impunità. Credo che tutti dobbiamo essere disponibili a farci valutare, e che anche il parere dei genitori possa essere importante. Ma mi chiedo: per strutturare e ufficializzare questo sistema di giudizio quali criteri vengono utilizzati? I genitori, su quali basi giudicano? Lo sappiamo o siamo in mano alla loro onestà intellettuale? Sanno ciò che raccontano i figli? Ciò che vedono ai colloqui? Ciò che apprendono dagli altri genitori, magari sui social? Con che metro possono giudicare le competenze professionali di una persona che fa un lavoro che in genere non è il loro? Davvero siamo pronti a promuovere l’ottimo docente che ha rimandato quel somaro di nostro figlio?

Aiuta la prospettiva – e fa capire in che direzione ci muoviamo – un’occhiata al sito ratemyteachers.com, che raccoglie le valutazioni degli insegnanti di Usa, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Irlanda, per mano di studenti, genitori e professori. Se state pensando di iscrivere vostro figlio a una certa scuola potete guardare i punteggi, dell’istituto e dei singoli insegnanti, e leggere le brevi descrizioni con tanto di stelline. Se siete bravi a incrociare i dati, lasciando fuori per esempio i giudizi evidentemente frutto di livore, potete scoprire qualcosa di utile. Altrimenti ne uscirete più confusi di prima.
Vi ricorda qualcosa? Esatto: sembra il TripAdvisor del mondo della scuola. Solo che finché si tratta di scegliere un ristorante ci si può permettere di prendere una fregatura, ma sul futuro di un figlio viene qualche ansia in più. E se già sono fastidiosi i clienti che danno recensioni negative senza motivo al lavoro di un ristoratore, figurarsi quelli che possono distruggere la carriera di un insegnante.
La parola chiave, infatti, è: clienti. Anche nella scuola come in altri campi, abbiamo preso a considerarci – soprattutto noi genitori ma anche, per traslato, i nostri figli – dei clienti della scuola. Paghiamo (la retta per le scuole private, le tasse per quelle pubbliche) e quindi dobbiamo avere un buon servizio. Qualunque sia la nostra concezione di «buono»: che si tratti di qualità dell’insegnamento, o di voti alti per i nostri rampolli, o magari di tenere lontani i figli dei custodi che potrebbero traumatizzarli con i loro stili di vita molto diversi.

La scuola vista come un ostacolo al successo

In un’intervista al «Corriere del Mezzogiorno» a novembre del 2017 la professoressa Rosalinda Cassibba, ordinaria di Psicologia dello sviluppo all’Università Aldo Moro di Bari, lamentava una deriva nei rapporti tra la scuola e le famiglie, esattamente in questi termini: la scuola, diceva, è vista ormai come «un’impresa che offre un servizio» e questo «porta un padre e una madre a convincersi di avere il diritto di interferire se quello che viene inteso come un servizio non corrisponde ai propri desideri: è come se un cliente si lamentasse di un prodotto». La scuola è in parte responsabile di questa percezione, osserva la docente, dato che in tempi di scarsa natalità gli istituti si contendono gli studenti a colpi di «open day» e altre offerte specialissime.
Ma alla base c’è un sistema di valori non più condiviso. Semplicemente, quello che i genitori vogliono per i loro figli non è che vadano bene a scuola. È che «riescano bene» nella vita. Come? In ogni modo possibile.
«C’è una distorta idea di ricerca del successo per i propri figli: la scuola, con le sue regole, viene vista come un ostacolo.
Questo spiega anche le continue lamentele nei confronti degli insegnanti» nota la professoressa. «Basti pensare alle critiche per i troppi compiti a casa: si pensa che il carico di lavoro possa compromettere l’affermazione dei figli in altri ambiti, come lo sport.» Così, il genitore, che in quanto tale «sa meglio cosa sia bene per il proprio figlio», interviene a gamba tesa. Non è lo studente a rifiutare le regole: la ribellione giovanile all’autorità sarebbe normale, persino sana, e gli insegnanti sanno come affrontarla. Le regole le rifiuta, a monte, per conto terzi, il padre o la madre.
Così però i danni sono duplici: per gli insegnanti, che si sentono isolati e non lavorano al meglio. E per gli studenti. «Si crea una generazione di disadattati» dice senza mezzi termini la professoressa. «I genitori, in questa corsa verso quello che ritengono il successo, ritengono di poter dire ai docenti come comportarsi. Ma così negano ai figli la possibilità del confronto e della crescita: pensano di tutelarli, ma non fanno altro che danneggiarli.»

Chiediamo troppo?

Sottoponendo questa teoria alle mie conoscenze nel mondo docente, piovono consensi. «Gli studenti non sono un problema» ha annuito sconsolata la preside piemontese di un istituto con più di mille ragazzi (e, precisava lei, almeno il doppio tra parenti annessi) «sono la materia del nostro lavoro. I professori sono un caso difficile, ma alla fine li gestisci. La burocrazia impari a maneggiarla. Il problema vero? I genitori.»
«Sono diventati un problema mano a mano che sono entrati nella gestione della scuola» mi spiegava Roberta, insegnante di lungo corso in un liceo classico di una grande città. «Il principio ovviamente è giusto, ma la pratica è frustrante. Partecipano soprattutto quelli politicizzati, che hanno in mente obiettivi altri rispetto al funzionamento delle lezioni, oppure quelli con conti da saldare con i “loro” professori del passato, o ancora quelli che credono di poter insegnare a insegnare. Nessuno opererebbe al posto del chirurgo, ma tutti saprebbero risolvere problemi didattici. Non voglio essere tranchant, ci sono anche volte in cui sono utili, in cui fanno emergere problemi di professori ingiusti, inadempienti o scorretti, ma a volte oppongono muri inaspettati.» Una volta, ha raccontato, gli studenti (proprio loro!) avvertirono lei e una collega che alcuni compagni fumavano spinelli nei bagni, sia durante la ricreazione, sia uscendo di classe durante le lezioni. «A un consiglio di classe cercammo di affrontare con delicatezza l’argomento, ma un agguerrito gruppo di genitori ci chiese se eravamo andate a sincerarcene di persona. Io risposi che non potevo certo entrare nei gabinetti dei maschi. Ci chiesero se avevamo preso e fumato quelle sigarette per poter provare che erano droga. Rispondemmo che noi non fumavamo neanche sigarette normali, e che quindi non avremmo potuto testimoniare se fosse droga o no. Allora il gruppetto minacciò di denunciarci se non avessimo portato le prove. Il preside ci consigliò, dopo questo esperimento, di pensare solo al latino e al greco e di lasciar perdere i ragazzi quando andavano al bagno.»

(… )

Genitori ricorrono al Tar. Povero figlio?

Ma alle follie genitoriali sembra non esserci mai fine, come nel caso della coppia di genitori di Canicattì che ha fatto ricorso al Tar di Palermo per far annullare il voto finale del figlio, giudicato ingiusto. Era nove. Volevano dieci. Il Tribunale ha respinto la richiesta e li ha condannati a pagare le spese legali. Io mi chiedo: ma il figlio? Invece di poter essere contento per un voto ottimo, si ritrova con l’angoscia di non essere riuscito a ottenerne uno eccellente, nemmeno per via giudiziaria.
Ogni studente, dalla materna alle superiori, si porta appresso il suo mondo, e molto spesso questo mondo precipita con tutto il suo peso sui docenti. Luigi, il professore bolognese delle medie che aveva cercato di insegnare ai suoi ragazzi a rispettare il prossimo sull’autobus, mi ha scritto qualche tempo dopo la nostra conversazione per
raccontarmi che ha avuto dei guai sul lavoro, dopo quell’episodio.
Quasi tutti i genitori della classe si sono lamentati ufficialmente perché aveva redarguito i loro figli senza motivo. Non si doveva permettere. Oggi Luigi è ancora più amareggiato di prima e ha concluso la sua mail con un laconico: «Mi sbagliavo. Le generazioni di mostri sono ben più di una».
Ci sono famiglie che si affidano in toto ai professori e altre che li combattono con ogni forza. Genitori che dimenticano i ragazzi a scuola, e tocca pure riportarli a casa, e altri che conoscono le valutazioni di tutti i compiti in classe, non solo quelle del figlio, ma anche quelle dei compagni. «I genitori da sempre pretendono e presumono molto dai figli, cosa anche giusta» mi spiegava Luca, prof di un liceo classico romano. «Ma oggi viviamo un paradosso: sono meno presenti e più ossessivi. Un tempo ai consigli di classe c’era la folla. Oggi no, sono meno attenti.» Fanno vite impegnate, lavorano entrambi – oppure sono single – e non riescono ad andare agli appuntamenti scolastici. «Sperano che pensiamo noi a tutto, sembrano delegare ai docenti quegli insegnamenti che invece spetterebbero a loro» continua il prof. «Ma poi si alterano se dai loro consigli.»
Certo, il lavoro lo fai fare agli altri, ma ti riservi il diritto di giudicare le persone cui l’hai, unilateralmente, delegato. Chiedi grandi poteri, ma poche responsabilità. E appena qualcosa non va come dovrebbe, ruggisci la tua collera di leone da tastiera cui hanno minacciato il cucciolo, barricadiero da WhatsApp pronto a tutto per la causa di tuo figlio. Purché non ci sia da sporcarsi le mani con i dettagli più faticosi dell’educazione dei ragazzi, quelli che rischiano di alienarti le loro simpatie.

 

 

 

Native

Articoli correlati