"Telefonofobia": i giovani e l'ansia di dover rispondere al cellulare

Le nuove difficoltà dei più giovani: lo squillo del telefono e il ritiro sociale. Sempre più immersi nel mondo di Internet e della comunicazione rapida, ma sempre meno in grado di condividere e parlare con gli altri .

"Telefonofobia": i giovani e l'ansia di dover rispondere al cellulare
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14 Maggio 2024 - 20.43


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di Margherita Degani

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Una nuovo frontiera del disagio giovanile si sta affacciando, la “telefonofobia”. Allo squillo del proprio cellulare, ecco sopraggiungere la sorpresa, l’ansia di dover rispondere ed interagire, la speranza che, dall’altro capo, qualcuno riattacchi. Di gran lunga preferibile, invece, è attendere le note finali della suoneria – laddove non sia stata direttamente disattivata- e procrastinare la materia conversativa. Oppure, se necessario, inviare un messaggio WhatsApp e procedere secondo questa modalità di scambio. Una significativa rottura con lo stile de comportamenti umani praticati fin qui.

E’ indubbio, infatti, che la comunicazione sia uno degli aspetti che più ci definiscono ed identificano in quanto esseri umani. Non solo, raccontare e raccontarsi sviluppa tanto la capacità di stare con gli altri e di capire il contesto che ci circonda, quanto la propria personalità. Siamo fatti di storie – personali ed esterne – che si intrecciano. Eppure oggi le difficoltà mostrate dai più giovani proprio nel campo della comunicazione e della condivisione diretta di pensieri, esperienze ed opinioni risulta sempre più diffusa, fino a toccare vere e proprie forme di fobia.

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The Irish Times ha riportato un sondaggio di Sky Mobile del 2023 secondo il quale oltre il 26% dei giovani appartenenti alla Generazione Z tende a ignorare le telefonate, mentre il 20% crede sia strano riceverne. Inoltre, lo studio di Open Market ha rilevato che, anche nel caso dei Millennials, il 75% evita di “sollevare la cornetta”, preferendo l’invio di qualche messaggio. Dalla sensazione di disagio, alla percezione che si tratti di un’intrusione nella propria vita, fino alla paura di ricevere una brutta notizia. Quella che sembrava essere nata come una tendenza generazionale, per il prof. Massimo Ammaniti (psicoanalista e docente di Psicopatologia dello sviluppo presso la Sapienza) si sta trasformando in una pericolosa patologia. “La fobia del contatto porta il ragazzo a chiudersi in camera, a non voler più uscire, a delimitare e circoscrivere i rapporti con gli altri”; ci spiega infatti che sempre di più sono i giovani non esposti al dialogo e attanagliati da malesseri profondi, poco compresi dalla società e dalle famiglie.

A tutto ciò spesso segue il così definito ritiro sociale, che ormai investe un numero significativo di ragazzi, anche in età pre-adolescenziale. A volte le cause sono più nette ed identificabili, come ad esempio atti di bullismo o l’inizio di una dipendenza da videogiochi e media. In altre, invece, i confini si fanno più sfocati e complessi: sono il senso di inadeguatezza rispetto a sé stessi, il disagio nel passaggio all’età adolescenziale, la fatica di relazionarsi con gli altri e sofferenze più personali a spingere verso una maggior chiusura. Non da meno, poi, gli esiti di una società tanto individualista come la nostra: esigente, competitiva e spietata con chi non è ritenuto adatto agli standard d’immagine e di vita odierni.

Pian piano le energie delle persone e, soprattutto, dei giovani – che ancora non le sanno indirizzare e sfruttare al meglio- si vanno consumando e spingono ad atteggiamenti di tipo conservativo, limitati alla sopravvivenza. Una sopravvivenza che non riesce, talvolta neppure desiderandolo, a contemplare lo scambio con l’altro, che diventa invece sempre più pericoloso.

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Non sono certo d’aiuto, in tale contesto, l’iperconnessione del mondo attuale e le norme applicate nel periodo del Covid. Le molteplici forme comunicative di chat e social network, tanto quanto la diffusione stessa di Internet, hanno portato gli individui ad essere connessi continuamente. I ragazzi scrivono tutto il giorno e sono sempre in contatto tra di loro, ma la realtà è che la conversazione priva di un medium digitale è diventata difficoltosa. Il telefono, da cui non si separano, è uno scudo che li protegge dalla necessità di esporsi e che li priva della capacità di gestire la comunicazione non verbale, tanto quanto la diversa velocità di uno scambio diretto – sia esso faccia a faccia o voce a voce- anche perché questo deve inevitabilmente confrontarsi con l’aspettativa dell’altro. L’iperconnessione diventa allora chiusura ed estraniazione dal mondo esterno.

Dall’altra parte, l’esperienza della pandemia ha accresciuto il problema ed il timore del contatto: quarantene, coprifuochi, campagne denigratorie violente, uso di linguaggi aggressivi, didattica a distanza e distanziamento sociale non hanno fatto altro che rendere più faticosa la creazione dei rapporti o accentuare le tendenze isolanti di chi già le possedeva, fornendo nuovi mezzi e alibi per evitare contatti.

Il confronto tra individui ed il contatto – umano, prima ancora che sociale – hanno un’importanza inimmaginabile. Il concetto di “gruppo tra pari”, tipico della fase adolescenziale, è insostituibile, poiché favorisce lo sviluppo della propria identità, dei valori, delle idee e delle modalità di elaborazione del giudizio. I problemi legati all’isolamento devono quindi essere presi sul serio.

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