Ridurre le spese militari per affrontare i veri problemi globali: sì può, si deve

Esiste una “praxis” pacifista, in cui idealità e concretezza, denuncia e proposta si coniugano in un agire lineare, coerente. 

Ridurre le spese militari per affrontare i veri problemi globali: sì può, si deve
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

12 Luglio 2023 - 15.11 Globalist.it


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Esiste una “praxis” pacifista, in cui idealità e concretezza, denuncia e proposta si coniugano in un agire lineare, coerente. 

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Un “sapere” pacifista che si nutre di conoscenza. E la conoscenza, coniugata ad una sana, salutare “utopia” porta a riempire le piazze, ad esserci. 

La riprova

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La spesa militare mondiale ha raggiunto nel 2022 la somma record di 2.240 miliardi di dollari complessivi, con una crescita del 3,7% in termini reali rispetto all’anno precedente corrispondente a ben 127 miliardi. Una cifra che supera di gran lunga i 100 miliardi annui promessi in ambito COP sul clima per primi interventi in emergenza contro gli impatti del cambiamento climatico.

Nello stesso anno la spesa militare europea è aumentata del 13%, la maggiore crescita annuale mai registrata nel vecchio continente dalla fine della guerra fredda, mentre le stime dell’Osservatorio Mil€x evidenziano un aumento previsionale per l’Italia di 800 milioni sul 2023 e un livello di spesa per nuovi armamenti ormai costantemente sopra gli 8 miliardi di euro annui (sicuramente in ulteriore forte crescita se saranno accolte le richieste di procurement militare avanzate dagli Stati Maggiori della Difesa).

Questo aumento di fondi per armi ed eserciti non porta certo alla Pace: nonostante un quasi raddoppio della spesa militare globale in questo secolo secondo il Global Peace Index negli ultimi 15 anni il mondo è diventato meno pacifico, con un aumento dei conflitti del 14% e un crollo del tasso di sicurezza del 5,4%. I dati dell’Uppsala Conflict Data Program hanno registrato almeno 237.000 persone morte a causa della violenza organizzata nel 2022, un dato che rappresenta un aumento del 97% rispetto all’anno precedente e segna il più alto numero di morti dal genocidio del Ruanda nel 1994. E con un numero totale di conflitti mai così alto: più armi, evidentemente, non ci rendono più sicuri.

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Per tutti questi motivi, e in concomitanza con il Vertice Nato di Vilnius che vedrà gli Alleati concordare davvero solo su un aumento indiscriminato della spesa militare (il famoso “target” del 2%, mai spiegato) Greenpeace Italia, la Campagna Sbilanciamoci e la Rete Italiana Pace e Disarmo hanno rilanciato in una conferenza stampa al Senato la richiesta di uno spostamento delle risorse attualmente destinate all’ambito militare verso impieghi di natura civile più urgenti, utili ed efficaci.

Unendosi alle preoccupazioni evidenziate dalla Dichiarazione congiunta della Campagna internazionale contro le spese militari GcomS: l’aumento continuo delle spese militari “è incoerente con gli sforzi per raggiungere gli obiettivi essenziali di emissioni e aggraverà, non arginerà, l’emergenza climatica. La guerra e i conflitti armati non portano solo morte e distruzione, ma anche devastazione dell’ambiente e distruzione del clima”. Nonostante i Governi continuino a ripetere che sono spese utili per la difesa, alla fine le spese militari ci renderanno indifesi di fronte alla minaccia esistenziale rappresentata dalla crisi climatica. “I fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmo e le iniziative di giustizia globale, vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato”, sottolinea Francesco Vignarca della Rete Pace Disarmo.

La stessa prospettiva dai cui prendono le mosse le considerazioni e le proposte della “Controfinanziaria” della Campagna Sbilanciamoci: la guerra in Ucraina ripropone la necessità del potenziamento delle politiche per la pace, la sicurezza, la cooperazione internazionale. Rafforzando la prevenzione dei conflitti e dando centralità ad organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e l’Osce. E’ necessario imprimere una accelerazione alle politiche di disarmo nucleare e alla riduzione delle spese per armamenti e al loro commercio. “Siamo contrari a portare al 2% del PIL la spesa militare e anzi sosteniamo tutte le iniziative che vadano verso la riduzione del 20% degli investimenti in sistemi d’arma, proponendo altresì una moratoria su tutte le nuove iniziative programmate” dichiara il portavoce di Sbilanciamoci Giulio Marcon. “Sosteniamo tutte le iniziative che vadano nella direzione della riconversione dell’industria militare verso produzioni civili e il totale rispetto della Legge 185 sul commercio di armamenti verso altri Paesi. Vanno rafforzati gli investimenti e gli stanziamenti per il servizio civile e i corpi civili di pace ed è necessaria l’approvazione, con adeguati finanziamenti, della legge per la difesa civile e nonviolenta, tutti strumenti volti a dare sostanza all’idea dell’adempimento degli articoli 52 e 11 della Costituzione nella direzione del rifiuto della guerra e dell’adempimento del dovere di difesa della patria attraverso metodi nonviolenti”.

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Le proposte avanzate dalle tre Organizzazioni riguardano anche l’industria militare. Se i fatturati 2022 delle aziende della Difesa non registrano ancora gli effetti degli ordini legati alla guerra in Ucraina, mostrano però già extra profitti connessi all’aumento della spesa militare scatenato dall’invasione russa. Da un’analisi condotta da Greenpeace in collaborazione con Merian Research, è emerso che per il 2022 i maggiori profitti (in termini di utile netto) delle principali aziende esportatrici di armi ammontano a un totale di oltre 380 milioni di euro rispetto al 2021 (+55%). L’86% di questi utili è stato prodotto dalla sola Leonardo, che ha visto crescere il suo portafoglio ordini anche nel primo trimestre 2023. “Di fronte alle entrate record delle aziende energetiche il governo italiano ha deciso di tassare gli extra profitti delle aziende fossili, la richiesta ora è quella che siano tassati al 100% anche gli utili extra delle aziende della Difesa, perché nessuno possa beneficiare delle stragi di civili e di militari” evidenzia Sofia Basso, Research Campaigner di Greenpeace Italia.

Nel budget militare italiano una delle spese chiave è quella destinata alle missioni militari: secondo i calcoli di Greenpeace il 64 per cento di tali fondi è destinato alla tutela delle fonti fossili: circa 830 milioni di euro, il 60 per cento in più del 2019. L’anno record è stato il 2022, con il 70 per cento della spesa per operazioni militari legate alla sicurezza energetica. Un impegno militare ed economico importante, deliberato anno dopo anno, senza un vero dibattito pubblico sugli interessi nazionali che il nostro Paese è chiamato a difendere. Greenpeace Italia ha chiesto dunque a Governo e Parlamento di smettere di proteggere militarmente asset e interessi dei principali responsabili della crisi climatica, una proposta appoggiata anche da Rete Italiana Pace Disarmo e Sbilanciamoci.

Le tre organizzazioni si uniscono infine nel rilanciare le richieste urgenti ai Governi di tutto il mondo formulate dalla Campagna Gcoms, come ricordato in un messaggio video anche da Quique Sánchez Ochoa dell’Ufficio di coordinamento della Global Campaign On Military Spending:

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  • cambiare rotta e concentrarsi su tagli rapidi e profondi alle spese militari, che alimentano la corsa agli armamenti e la guerra
  • smilitarizzare le politiche pubbliche, comprese quelle destinate ad affrontare la crisi climatica
  • attuare politiche incentrate sull’umanità e sulla sicurezza comune, che proteggano le persone e il pianeta e non l’agenda del profitto delle industrie delle armi e dei combustibili fossili
  • creare strutture di governance e alleanze basate sulla fiducia e la comprensione reciproca, sulla cooperazione e sulla vera diplomazia, in cui i conflitti vengono risolti attraverso il dialogo e non con la guerra.

Denuncia/Proposta

Le Forze Armate mondiali sono responsabili di circa il cinque per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra, ma la loro impronta di carbonio, così come i vari altri modi in cui contribuiscono al collasso climatico, sono raramente esaminati. I Governi del mondo spendono attualmente più di 2.000 miliardi di dollari per la militarizzazione, ma l’espansione militare è incoerente con gli sforzi per raggiungere gli obiettivi essenziali di emissioni e aggraverà, non arginerà, l’emergenza climatica. La guerra e i conflitti armati non portano solo morte e distruzione, ma anche devastazione dell’ambiente e distruzione del clima. Anche se i Governi possono sostenere che queste spese per la “difesa” siano necessarie, alla fine ci renderanno indifesi di fronte alla minaccia esistenziale rappresentata dalla crisi climatica.

Il riscaldamento globale rappresenta un rischio importante e duraturo per i cicli climatici del nostro pianeta e i disastri meteorologici che ne derivano spesso esacerbano le ingiustizie esistenti – e questo può portare a conflitti per l’accesso alla terra e alle risorse di base, oltre che a sfollamenti forzati. Affrontare il cambiamento climatico significa affrontare altri problemi strutturali come la povertà, gli shock economici e l’indebolimento delle istituzioni. Ciò è particolarmente vero nelle regioni che hanno contribuito meno alla crisi climatica, ma che sono maggiormente colpite dalle sue devastanti conseguenze.

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Oltre alla cosiddetta “impronta di carbonio”, le strutture militari mondiali contribuiscono alla crisi climatica anche in altri modi fondamentali:

  • In particolare, le spese militari sottraggono risorse alle spese ambientali e sociali essenziali, tra cui le iniziative per rallentare la velocità del cambiamento climatico, affrontare le perdite e i danni e rispondere alle emergenze meteorologiche
  • Le strutture militari, sotto forma di eserciti nazionali, forze di polizia militarizzate o compagnie di sicurezza private, sono spesso impiegate per proteggere l’industria dei combustibili fossili. Questo settore è uno dei maggiori produttori di gas serra e la sua protezione militare lo rende complice di queste emissioni
  • Sebbene sia urgente proteggere i nostri ecosistemi dalla distruzione dell’ambiente, troppo spesso quando gli attivisti ambientali prendono provvedimenti per salvaguardare le loro terre, i loro fiumi e i loro mari, vengono violentemente repressi da strutture di sicurezza militarizzate, tra cui la polizia, le compagnie di sicurezza private e, a volte, l’esercito
  • Il nesso tra combustibili fossili ed estrattivismo, conflitti armati e guerre è ben documentato, dal periodo coloniale alle guerre di oggi
  • Sempre più persone sono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di eventi meteorologici estremi provocati dal cambiamento climatico. Così come l’apparato di sicurezza delle frontiere attualmente contiene le persone e impedisce loro di raggiungere la sicurezza o di chiedere asilo, l’esercito sarà probabilmente ulteriormente dispiegato per tenere fuori da certi confini coloro che fuggono dai disastri climatici
  • Inoltre l’industria degli armamenti, che per molti versi è la spina dorsale del militarismo, investe molto tempo e denaro in attività di lobbying aziendale per promuovere la propria agenda orientata al profitto. Negli ultimi anni ha sfruttato la crisi climatica come un’opportunità per posizionarsi come attore chiave nella progettazione di armi “più verdi” e ha fatto pressioni per ottenere maggiori finanziamenti da destinare a questo scopo. Questo approccio prolunga e approfondisce la logica che guida il militarismo e la guerra

La leadership politica globale si è concentrata su scelte aggressive guidate da “tintinnare di sciabole”, alimentando tensioni e paure invece di coltivare relazioni internazionali basate sulla fiducia reciproca, sulla diplomazia e sulla cooperazione – tre componenti essenziali per affrontare la natura globale della minaccia climatica. I fondi che potrebbero essere utilizzati per mitigare o invertire il dissesto climatico e per promuovere la trasformazione pacifica dei conflitti, il disarmoe le iniziative di giustizia globale, vengono invece spesi per militarizzare un mondo già troppo militarizzato.

Per tutti questi motivi chiediamo con urgenza ai Governi di:

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  • cambiare rotta e concentrarsi su tagli rapidi e profondi alle spese militari, che alimentano la corsa agli armamenti e la guerra
  • smilitarizzare le politiche pubbliche, comprese quelle destinate ad affrontare la crisi climatica
  • attuare politiche incentrate sull’umanità e sulla sicurezza comune, che proteggano le persone e il pianeta e non l’agenda del profitto delle industrie delle armi e dei combustibili fossili
  • creare strutture di governance e alleanze basate sulla fiducia e la comprensione reciproca, sulla cooperazione e sulla vera diplomazia, in cui i conflitti vengono risolti attraverso il dialogo e non con la guerra”.

E’ la presa di posizione della campagna Gcoms in occasione della 12ma edizione delle Giornate globali di azione sulle spese militari (Gdams) tenutesi dal 13 aprile al 9 maggio.

E poi c’è chi continua a blaterare, dalle prime pagine dei giornali o nei sempre più nauseanti e ripetivi salotti mediatici, dice che i pacifisti sanno dire solo “no”. E’ una politica cialtrona e una stampa allineata. Globalist non ne fa parte. E ne siamo orgogliosi.

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