Social network: non solo fake, ma anche storie di diritti e rivolte

Dalla rivolta per l'uccisione di George Floyd, dopo le immagini lanciate su Fb da una ragazza, alla nascita del "Me Too". Come le minoranze si servono dei social per difendersi dai poteri

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30 Ottobre 2021 - 11.56


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di Camilla Annicelli

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”Papà ha cambiato il mondo’’: è la frase pronunciata da Gianna, la figlia di soli sei anni, una volta appresa la notizia che suo padre, George Floyd, era stato ucciso nelle strade di Minneapolis dal poliziotto Derek Chauvin. George Floyd, un uomo afroamericano ucciso a soli  46 anni. Gianna aveva ragione: la morte di quel giovane ha, inevitabilmente, cambiato il modo di vedere il mondo. Ma se quel 25 maggio del 2020 ad assistere alla tragedia non ci fossero state delle persone con uno smartphone, pronte a riprendere ciò che stava accadendo, la morte di George Floyd avrebbe davvero avuto la stessa risonanza?

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Darnella Frazier, una giovane di 18 anni, presente durante l’omicidio, senza pensarci due volte, sceglie di usare il suo cellulare per testimoniare l’accaduto. Le è bastato poi npremere ‘’invio’’ e pubblicare  il contenuto su Facebook. In pochi minuti le visualizzazioni e le condivisioni sono arrivate alle stelle. Da questo momento in poi l’ effetto valanga è venuto da sé. In poche ore i cittadini americani, di diverse etnie e appartenenze sociali, hanno popolato le strade di tutta l’America marciando e protestando sui motti ‘’Black lives matter’’ e ‘’No justice no peace’’. Le persone si sono ritrovate unite a lottare pacificamente contro un nemico comune: il razzismo.

L’America era sotto i riflettori. In ogni social vi erano video e foto che testimoniavano quanto stava accadendo, Twitter è stato popolato per settimane dall’hashtag ‘’BLM’’ (sigla che richiama il movimento attivista Black Lives Matter) e tutte le emittenti televisive del mondo  trasmettevano video in tempo reale.

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Non è il solo caso in cui i social hanno avuto un effetto diretto sui comportamenti della sfera pubblica e hanno influenzato anche la stampa più tradizionale. Prendiamo , ad esempio, l’ormai noto caso di Harvey Weinstein.  Il New York Times nel 2017 aveva pubblicato un’inchiesta riguardante tutte le denunce per molestie sessuali contro il produttore cinematografico. Qualche giorno dopo, l’attrice Alyssa Milano scrive in un suo tweet:’’ Se sei stata molestata o aggredita sessualmente, scrivi ‘Me too’ in risposta a questo tweet”. In poco tempo, quell’hashtag proposto già 11 anni fa dall’attivista Tarana Burke  viene rilanciato assumendo un’importanza globale.

 

Prima centinaia e poi migliaia di attrici o collaboratrici, rimaste in silenzio fino a quel momento, hanno iniziato a scrivere e poi parlare, mettendo alle strette tutto un sistema cinematografico accusato di sessismo e violenze. Iniziarono una serie infinita di processi o di licenziamenti, e Harvey Weinstein venne condannato a 23 anni di carcere.

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Questo fenomeno produsse effetti anche in Italia. Giulia Blasi, scrittrice e giornalista, ispirata da tutto ciò che stava accadendo oltreoceano, creò un progetto collettivo su Twitter chiamato ‘’Quella volta che’’, in cui ogni donna poteva sentirsi libera di raccontare, per l’appunto, quella volta che è stata vittima di un qualche tipo di molestia in casa, per strada o nel posto di lavoro.

 

Il potere dei social nel connettere i più deboli è possibile individuarlo anche oggi. Dopo che è stata data  la notizia dell’affossamento del Ddl Zan, durante il pomeriggio del 27 ottobre, sui social erano già stati fatte circolare foto e video le esultanze da stadio dei senatori di destra. Non solo, sono bastate davvero poche ore per far sì che su Twitter riprendesse forza l’hashtag i‘’LGBTQ’’ , a sostegno di tutti coloro che non potranno avere una legge che li tuteli . Hanno iniziato a circolare post che informavano i militanti delle manifestazione che già si stavamo svolgendo in tutto il paese..

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Ogni volta che si ne discute  sul ruolo dei social escono fuori, spesso, solamente i fenomeni negativi della Rete: fake news, pornografia, cyber bullismo e hate speech. Eppure questi stessi mezzi sono serviti a dar voce alle minoranze, in particolare a quelle  che sono più discriminate in questa società.

 

Senza Twitter non ci sarebbe stato il “Me Too”, senza Facebook le proteste per i diritti dei neri, senza Instagram la campagna a sostegno della comunità LGBTQ e molto altro. Forse i social non sono il problema e forse, anzi sicuramente, non sono la prima a dirlo. Quello che conta è l’uso che ne facciamo, l’educazione che ci è stata data e la  scelta da quale parte della storia schierarsi: quella dei bulli o quella degli intelligenti.

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