Tappeti volanti e stivali magici

Il viaggio come conoscenza del mondo e come esperienza di sé, in un tempo che scorre con ritmi diversi rispetto al quotidiano

Tappeti volanti e stivali magici
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Gabriella Piccinni Modifica articolo

7 Luglio 2021 - 13.15


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di Gabriella Piccinni

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Mai come in quest’inizio d’estate 2021 abbiamo desiderato così tanto di tornare a viaggiare.

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“Ho visto tutto, con questi miei occhi di peccatore”, scriveva il monaco russo Daniele, che nel 1106-1107 compì un lungo pellegrinaggio dalla sua terra a Gerusalemme. Definiva questa smania di viaggiare il suo desiderio impaziente. Il fatto è che Daniele non è solo in questo desiderio. Il viaggio, per l’individuo, è sempre una ricerca a più dimensioni: ricerca di conoscenze relative al mondo e a sé stesso (per vedere con questi occhi), della propria identità, di una verità che lo trascende. Duecentocinquanta anni dopo di lui, il grande viaggiatore dell’Islam, Ibn Battuta, avrebbe scritto: “io ho veramente appagato il mio desiderio in questo mondo, che consisteva nel viaggiare per il mondo”.

Aspirare a viaggiare è, in questa estate 2020, anche ripetere l’esperienza di tempo sospeso che il viaggio rappresenta e che ci è stata negata nell’anno appena trascorso quando la pandemia ci ha fatto conoscere una sorta di sospensione del tempo, che in un certo somiglia a quella del viaggio. Forse simile a quella sperimentata da Bran, figlio di Febail.

 

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Il personaggio mitologico Bran è protagonista di una avventura molto particolare, il cui racconto originale, probabilmente anteriore di due o tre secoli, è tramandato in un manoscritto irlandese del sec. XI. Bran aveva vagabondato, si raccontava, su di una nave che non riusciva mai ad approdare in maniera definitiva, e in mare aveva fatto esperienza di un tempo che scorreva con ritmi del tutto diversi rispetto a quello umano. Lui se ne accorgeva solo quando scendeva a terra. Non era solo. Anche la barca di Màel Dùin, di cui si narra in Irlanda intorno all’VIII-IX secolo, si era lanciata in una navigazione infinita, durante la quale il protagonista si era incontrato con l’isola – guarda caso – della giovinezza eterna.

 

Dal mito alla realtà. Alcune iscrizioni funerarie che furono incise a caratteri runici, un po’ dopo il Mille, in Norvegia e in Svezia, per tramandare ai posteri il ricordo di familiari morti molto lontano, confermano l’impressione che certi popoli del nord operassero in un quadro di impressionante ampiezza geografica: “Egli era stato a lungo in Occidente; morì in Oriente con Ingvar”; “Essi con coraggio andarono lontano in cerca di oro: all’est nutrirono l’aquila; morirono nel Sud, in Turchia”; “Il padre di Kaar partì pieno di coraggio e acquistò ricchezze lontano, in Grecia, per il suo erede”.

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Forse i popoli del nord, all’estremo dell’Europa, con il mare come confine, anelavano in modo particolare ad annullare l’interminabilità dei loro viaggi. Però il desiderio di conoscere il mondo, di fare esperienza di sé e di spostarsi con la velocità del pensiero e senza fatica è stato protagonista e generatore di racconti, leggende e fantasie che hanno costellato un po’ ovunque quel ‘lungo medioevo’ del quotidiano che arriva fino a lambire l’età preindustriale. Travel è, del resto, il termine con il quale in inglese si indica il viaggio: dal francese travail, cioè lavoro, fatica.

 

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Quando, nel XIII secolo, gli amanuensi ricopiavano il manoscritto che conteneva la storia delle Mille e una notte trascorse da Shahrazàd a narrare al califfo, poco conta che i mongoli avessero già da tempo distrutto la grande rete del commercio arabo, e creato un rapporto diretto tra Cina, India e Occidente: quei racconti – che affondano nell’VIII e IX secolo – erano ancora intrisi della passione araba per  il viaggio continuo, con i suoi labirinti che sospingono i protagonisti di regno in regno, di città viva in città abbandonata, di latitudine in latitudine. Mentre Shahrazàd racconta, Sindibàd il Marinaio, con eterna fatica e insaziabile fame di conoscere, attraversa paesi fantastici dove si concentra tutto il meraviglioso dell’universo, e i mercanti continuano a camminare, a vendere le loro merci e cambiare le monete, nel susseguirsi interminabile delle notti e dei giorni. Spuntano, spariscono e ricompaiono le carovane e i porti, i mercati, le navi e i mercanti, e, intercalati con essi, i cavalli che sono capaci di volare e i tappeti magici che annullano distanze e fatica. È così che si riempiono di sogni le notti di Harùn ar Rashìd, califfo di Bagdad.

 

Sei secoli dopo, nella Francia della fine del Seicento, Charles Perrault favoleggiava, ancora, dei magici stivali delle sette leghe con i quali l’Orco, in cerca del minuscolo Pollicino e dei suoi fratelli che tentavano di sfuggirgli attraverso il bosco, “passava da una montagna all’altra e attraversava i fiumi con la stessa facilità che se fossero stati rigagnoli”. 

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