Twitter e Facebook, non sono quelle piattaforme neutrali che dichiarano di essere

I due grandi gruppi banditi dalla Russia. Mosse e contromosse mentre infuriano le battaglie. I social media e la guerra "ibrida" nelle riflessioni di Tiziano Bonini, docente di "Mass media, Cultura digitale e società" dell'Ateneo senese

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13 Marzo 2022 - 11.01


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di Tiziano Bonini

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La Russia ha bandito Twitter, Instagram e Facebook sul suo territorio, accusandoli di essere organizzazioni estremiste. Poco prima Facebook aveva deciso di concedere forme di espressione politica che normalmente avrebbero violato le sue regole sui discorsi violenti, come ad esempio “morte ai russi invasori”. La politica era stata applicata agli utenti di Ucraina, Russia, Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia, Slovascchia, Ungheria, Romania.
Twitter, nel frattempo, ha reagito al blocco, permettendo ai suoi utenti russi di usarlo attraverso il browser Tor. Una europarlamentare italiana che si era schierata contro le sanzioni alla Russia è stata rimossa da Twitter.

Queste notizie degli ultimi giorni confermano che i social media, come tutti gli altri media, sono a tutti gli effetti delle armi con cui proseguire la guerra oltre i tank e le bombe. Ogni guerra è ibrida, si combatte sul campo, e nell’”info-sfera”, nel tentativo di influenzare le opinioni pubbliche coinvolte nel conflitto. Solo che l’info-sfera delle guerre del Novecento coinvolgeva solo giornali e poi radio e televisioni. L’info-sfera di oggi è un ecosistema ibrido dei media, molto complesso e difficile da controllare.

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Tra i mezzi più difficili da controllare ci sono i social media: Putin sa benissimo che questi strumenti sono tra i più pericolosi per la circolazione di informazioni sulla sua guerra e sa anche che bloccarli significa far perdere a Meta milioni di utenti e di entrate pubblicitarie. Dall’altro lato, Meta e Twitter si sono schierate apertamente a favore dell’Ucraina, e con l’Occidente, come già si erano schierate in passato con la decisione di espellere Trump. Queste decisioni dimostrano che Meta e Twitter sono superpotenze mondiali, sono strumenti di soft power e sono editori, cioè prendono apertamente decisioni su cosa pubblicare e cosa filtrare.

Se c’era ancora qualche dubbio, ora non possiamo più averne: non sono le piattaforme neutrali che dicono di essere e che danno uno spazio di espressione a tutti, ma decidono le regole attraverso le quali questa espressione può manifestarsi. Sono liberi di farlo, perché la legge americana glielo permette, ma se questi spazi diventano i luoghi principali dove si svolge il dibattito pubblico e si costruisce e decostruisce l’opinione pubblica, diventa problematico affidare alle decisioni di un’azienda privata il potere di definire le regole del gioco di questo dibattito.


Questo avviene perché abbiamo lasciato che la sfera pubblica si riducesse al bar privato di Zuckerberg. Il risultato di questa privatizzazione della sfera pubblica è che i russi contrari alla guerra non avranno più spazi per manifestare il loro dissenso, mentre gli “altri” lo possono fare solo seguendo le regole del padrone del bar. Sono lontani i tempi in cui queste piattaforme ci sembravano strumenti di democratizzazione liberi dalle costrizioni degli altri media.

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