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Roma individualista, solitaria e addormentata ma anche città-mondo

Il 44% vive da solo. Giovani avviati alla competizione, burocrazia pessima, mafie nelle periferie, tanta droga, fallito il governo M5S. Ma c'è il turismo e molte realtà sanno accogliere

Roma individualista, solitaria e addormentata ma anche città-mondo
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10 Febbraio 2020 - 10.00


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Antonio Salvati *

La nascita di Roma Capitale cade il 3 febbraio del 1871, quando venne approvata la legge n. 33 sul trasferimento da Firenze a Roma della capitale d’Italia. Legge che arrivò – com’è noto – cinque mesi dopo gli avvenimenti storici che hanno segnato una tappa fondamentale dell’Unità d’Italia: il 20 settembre del 1870 il Regio Esercito entrò nella Roma pontificia dalla breccia di 30 metri aperta in prossimità di Porta Pia, consacrando l’annessione di Roma al giovane Regno d’Italia. A tal proposito, il 3 febbraio scorso si sono aperti ufficialmente i festeggiamenti per Roma Capitale che caratterizzeranno l’intero 2020 per terminare il 3 febbraio 2021.

Si direbbe che da allora tanta acqua è passata sotto i ponti. Oggi vivere a Roma, tre milioni di persone, sembra una roba da sfigati. Lo si avverte nel vittimismo diffuso, lamentoso e rassegnato accompagnata dall’inconsapevolezza del privilegio di vivere in una città, opulenta, sicura rispetto alla gran parte del mondo. Non c’è oggi traccia di un’idea di Roma che la politica o il mondo culturale abbiano lanciato. Tanto meno un destino comune. Eppure lo studioso tedesco Theodor Mommsen, già a fine Ottocento, avvertiva: «A Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti».

Invece, assistiamo al trionfo dell’individualismo romano. Alcuni dati ci aiutano a comprendere l’humus della capitale. Roma è città di gente sola: le famiglie con un solo membro sono il 44%. Gli anziani soli sono 250.000 su 626.000. Come non essere individualisti e rassegnati? Non c’è la spinta dei giovani verso il futuro. Gli ultrasessantacinquenni sono il 21,6% e gli ultraottantenni il 6,7%, quasi 200.000. Molti poveri: 150.000 anziani con un reddito inferiore agli 11.000 euro. Quando si è poveri, si pensa a sopravvivere e non a cambiare. I giovani calano: sono il 5% tra i 18 e 30 anni; del 9,5% tra i 31 e i 35 anni. Gli adulti – come in altre parti d’Italia – comunicano pessimismo ai giovani: la vita è difficile, meglio concentrarsi su di sé.

I giovani sono infragiliti, educati alla competizione. Molti non ce la fanno. I giovani che s’isolano, non lavorano, non studiano sono in forte crescita. Un popolo di giovani che dice no al futuro, chiudendosi in casa e non avvertendo la voglia di futuro. Fugge Roma dentro Roma. I figli dei ricchi non incontrano quelli dell’altra Roma; mai mettono piede nelle periferie (come facevano le giovani generazioni degli anni sessante e settanta; hanno i loro circuiti. Vanno a studiare all’estero.

In un deserto di luoghi aggregativi, le famiglie sono fragili (la dimensione media è di 2,1). Il fallimento del governo Cinque Stelle ha favorito l’aumento dell’antipolitica. Con una burocrazia tra le peggiori d’Europa, con una città senza governo, i romani potrebbero essere facile preda delle seduzioni delle convinzioni sovraniste gridate di fronte a una politica spesso impotente. Nelle periferie i tanti io soli si sentono comunità di destino. Odiano il nemico che impedisce la felicità degli italiani: lo straniero. Non è vero, ma funziona. Nel vuoto delle periferie, entrano le mafie che controllano il territorio: gli incendi del bar o della libreria. A Roma la droga ha un posto decisivo. La polizia calcola che dal 2015 al 2019 le piazze di traffico di droga sono raddoppiate da 15 a 30 (altri ne calcolano cento). I reati connessi agli stupefacenti sono in aumento, 117 su 100.000 abitanti: erano 105. Roma è al primo posto in Italia. Tuttavia, una città drogata, non cattiva: gli omicidi solo 18 nel 2018. Potremmo dire che la droga esprime la rassegnazione dei romani, la scelta di sfuggire la realtà umana, lavorativa, relazionale. Da soli! Roma addormentata dalla droga.

Tante periferie non unite da un cuore. Tanti periferici. Per i mondi periferici non ci sono simpatie o immedesimazioni. Non c’è Pasolini che, con i romanzi, parli di “ragazzi di vita”. E poi città di poveri con i 7.000-8.000 senza casa. La casa è un problema gravissimo: 200.000 case non abitate, 20.000 persone sono in case occupate, il maggior numero di richieste di sfratto d’Italia, senza case popolari, la grande rivoluzione dell’Italia dopo la guerra. Tant’altro si potrebbe aggiungere.

In breve, una città scarica di empatia. Roma drogata, senza casa e divisa. Roma per tanti si è provincializzata. Eppure, non tutto è negativo. L’economia ha aspetti positivi. Roma è la prima città per turismo, possiede un vasto patrimonio dell’umanità per l’Unesco, 25.000 siti d’interesse ambientale e archeologico, la più grande concentrazione di monumenti al mondo. Una città di bellezza e ricchezza storica uniche.

La Chiesa ha l’unica rete sul territorio con circa 350 parrocchie e un migliaio d’istituti religiosi, nonché realtà molte attive come la Comunità di Sant’Egidio. Il cristianesimo e la presenza del papato hanno fatto di Roma una città-mondo, che non vive solo per se stessa. Non a caso papa Francesco nel suo messaggio ai romani, in occasione dei 150 anni di Roma Capitale, ha parlato di Roma come «risorsa dell’umanità», «spazio universale, cattolico, ecumenico» negli anni del Concilio, ma anche scenario, in passato, dell’orrore della Shoah in cui la Chiesa fu – come ha ben raccontato Andrea Riccardi – «uno spazio di asilo per i perseguitati: caddero antiche barriere e dolorose distanze». Il Papa ha significativamente aggiunto che «c’è una domanda d’inclusione scritta nella vita dei poveri e di quanti, immigrati e rifugiati, vedono Roma come un approdo di salvezza. Spesso i loro occhi, incredibilmente, vedono la città con più attesa e speranza di noi romani che, per i molteplici problemi quotidiani, la guardiamo in modo pessimista, quasi fosse destinata alla decadenza».

Le parole del Papa contengono indicazioni preziose per costruire una visione comune: «Non possiamo vivere a Roma “a testa bassa”, ognuno nei suoi circuiti e impegni (…) Abbiamo bisogno di una visione comune. Roma vivrà la sua vocazione universale, solo se diverrà sempre più una città fraterna. Abbiamo bisogno di riunirci attorno a una visione di città fraterna e universale, che sia un sogno proposto alle giovani generazioni. Tale visione è scritta nei cromosomi di Roma. (…) Spesso la dimenticanza della storia si accompagna alla poca speranza di un domani migliore e alla rassegnazione nel costruirlo. Assumere il ricordo del passato spinge a vivere un futuro comune. Roma avrà un futuro, se condivideremo la visione di città fraterna, inclusiva, aperta al mondo. Nel panorama internazionale, carico di conflittualità, Roma potrà essere una città d’incontro».

* Membro della Comunità di Sant’Egidio

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