di Ilenia Valentini
Un “terremoto geopolitico”. Così molti hanno definito la recente edizione della conferenza sul clima Cop30, tenutasi a Belém, prima colonia europea dell’Amazzonia brasiliana. Ci si aspettava che portasse soluzioni, che concretizzasse impegni presi in precedenza: come la roadmap per l’abbandono dei combustibili fossili e lo stop alla deforestazione. Invece, il testo finale, il Global Mutirão, è stato approvato per consensus, ma senza questi punti ritenuti da molti fondamentali, in gran parte a causa delle pressioni dei paesi arabi e produttori di petrolio, che hanno potere di veto.
Al battito del martelletto da parte del presidente della conferenza, il diplomatico brasiliano André Corrêa do Lago, non sono mancate le proteste. Delegazioni come Colombia, Panama e Uruguay hanno annunciato addirittura un vertice alternativo sul phase-out dei fossili, (eliminazione graduale dell’uso di carbone, petrolio e gas) che si terrà a Santa Marta, in Colombia, col coinvolgimento anche dei Paesi Bassi. Lo stesso Corrêa do Lago ha ammesso la delusione generale, rivendicando però la necessità di salvaguardare il consenso raggiunto.
Anche rappresentanti europei, come il ministro italiano dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, hanno ammesso l’insoddisfazione: il documento non rispecchia le ambizioni che si era data l‘UE, ma ha sottolineato anche che bisogna prendere atto che il quadro politico mondiale è cambiato molto. Il Governo francese. attraverso la ministra della Transizione ecologica Monique Barbut, ha dichiarato l’impossibilità di sostenere il testo, in quanto non raggiungerebbe nemmeno l’atteso livello minimo di ambizione.
Ma non tutto è stato negativo. La conferenza ha confermato l’intenzione dei paesi più ricchi di triplicare i finanziamenti per l’adattamento verso i paesi più vulnerabili, con circa 120 miliardi di dollari dei 300 miliardi discussi l’anno scorso a Baku e destinati alle conseguenze della crisi climatica. Organizzazioni come l’internazionale Climate Action Network e il think tank di casa nostra, Italian Climate Network, hanno accolto con favore questi impegni, definendoli una “transizione giusta”, anche se tuttavia, si tratta di passi lenti rispetto all’urgenza della crisi climatica globale.
Purtroppo però le emissioni globali continuano a crescere, mettendo in crisi gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. La Cina ha superato gli Stati Uniti nel totale di Co₂ emessa, arrivando a quasi 12 miliardi di tonnellate nel 2023, ma analizzando le emissioni pro capite, la cosa cambia: paesi come la Cina e l’India risultano ancora con valori relativamente bassi, mentre paesi del Nord del mondo (Nord America, Europa, Oceania) rimangono tra i maggiori responsabili. Inoltre, l’intensità carbonica rivela come molti paesi occidentali abbiano solo “spostato” parte delle emissioni verso paesi del Sud globale, mantenendo inalterato il peso totale dei gas serra. Il mondo non ha ancora raggiunto il picco di emissioni, ma quello che conta è l’accumulo. La Co₂ non è come gli altri inquinanti, è molto stabile e rimane in atmosfera per centinaia di anni e ciò rende fondamentale considerare, non solo le emissioni odierne, ma anche quelle passate.
Accanto alle discussioni economiche e climatiche, la Cop30 ha coinvolto anche questioni sociali. Il Brasile ha riconosciuto formalmente dieci nuovi territori amazzonici come patrimonio delle popolazioni indigene, mentre le comunità Lgbtqia+, per la prima volta hanno richiesto partecipazione e visibilità nei processi negoziali sul clima perché “La giustizia climatica non può essere raggiunta se le comunità storicamente emarginate vengono lasciate indietro”.
Guardando avanti, la Cop31 si terrà ad Antalya, in Turchia, ma a guidare il negoziato sarà l’Australia. Lo stallo diplomatico, durato un anno e proseguito anche durante la Cop30 di Belém, si è risolto quando Canberra ha fatto un passo indietro. Nel compromesso, definito “scricchiolante”, l’Australia resterà comunque al timone dei lavori, preparando bozze e producendo la cover decision, quel documento politico finale adottato alla conferenza delle parti (Cop) sul clima.
La Turchia, come spiega Jacopo Bencini dell’Italian Climate Network a Wired punta sia a pacchetti finanziari che a uscire dall’Allegato 1 (il documento che identifica i paesi industrializzati in transizione) per essere considerato fra i “Paesi in via di sviluppo” e di conseguenza un net receiver, cioè un Paese che riceve più soldi di quelli che fornisce per adempiere agli impegni climatici. L’accordo raggiunto per Antalya, come sottolinea ancora Bencini, mette in luce le difficoltà di conciliare interessi nazionali e funzionamento della Convenzione Onu sul cambiamento climatico.
Pur legatissima al carbone, l’Australia ha un governo progressista che vuole parlare di clima e darsi visibilità internazionale. Canberra cercherà di far percepire la Cop31 come australiana, anche se nei fatti non potrà esserlo.
