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Vita agra di un ghostwriter di sinistra

Pubblichiamo un estratto da “L’uomo in blu”, romanzo di esordio di Alessandro Mazzarelli. Che scrive di politica perché la conosce dall’interno

Vita agra di un ghostwriter di sinistra
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5 Maggio 2018 - 17.55


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Un giovane di sinistra, Valerio, dai forti ideali, nei primi anni Duemila per caso finisce a lavorare per un deputato di centrosinistra, un tal Enrico Bernini, perché faceva ripetizioni alla figlia. La politica appassiona questo laureato che come tutti ha bisogno di lavorare. Si impegna perché crede in quel che fa. Lavorare per quel parlamentare gli riserverà sorprese. Non necessariamente piacevoli o incoraggianti. È “L’uomo in blu” (Elliot Edizioni, 192 pagine, 17,50 €), romanzo di Alessandro Mazzarelli, romano, del 1976, che lavora davvero nella politica, crede nel valore delle idee, nei valori della sinistra. Il suo esordio letterario è sì disincantato, l’autore coglie con ironia le contraddizioni della politica e il divario tra la sua vita con la compagna, con gli amici, e l’universo in cui si ritrova catapultato tra auto blu e lotta per il potere, eppure ha un fondo amaro nel tono delle parole, nel racconto di quel che vede perché vede come il suo sogno di cambiamento venga “assorbito” senza difficoltà e senza i risultati sperati. È emblematico cosa gli dice il deputato alla fine del colloquio con cui lo prende come assistente: “Quando gli dissi che volevo essere libero di scrivere quello che pensavo, si mise a ridere. Ma che ti credi Vale’, che ti censuriamo? Vai tranquillo che la politica assorbe tutto”. La passione politica resterà? Lo scoprirete leggendo il libro. L’area di riferimento? Quando Bernini esclama che non vuole essere preso per un “veltroniano” è palese: il Pd. Come logico, è però un riferimento e il discorso è molto più ampio.

 

Alessandro Mazzarelli

 

L’ufficio di Bernini era spartano, due scrivanie, due computer, due telefoni, accanto alla televisione un mobile basso, fax e risme di carta. La segretaria di Bernini mi fece accomodare su una sedia dallo schienale alto e duro, si chiamava Laura e fu molto cortese nel gestire con tatto il mio nervosismo e l’assenza di Bernini, che arrivò con mezz’ora di ritardo, trafelato quel poco che serviva a trasmettere dispiacere.
Sbrigò un paio di telefonate e fece spostare alcuni appuntamenti. Poi parlò con me. Voleva che l’aiutassi con i lavori d’aula, con le lettere dei cittadini, voleva spunti, idee fresche, di voi giovani. Ludovica (la figlia dell’onorevole a cui li protagonista dà ripetizioni, ndr) ha recuperato – disse prevenendo la mia unica obiezione – ormai può fare da sola, io invece no, il mio assistente mi ha mollato, ha vinto un concorso pubblico, che ai miei tempi era l’incubo peggiore, oggi invece sognate tutti questo benedetto contratto da impiegato. Potrei pescare tra i segnalati ma non li conosco, tu invece mi sembri affidabile.
La sua voce era gentile, il suo sorriso anche. Un contratto vero io non l’avevo mai visto, e non sapevo chi fosse il suo assistente, ma non fu bello sentirsi dare dell’aspirante impiegato al primo appuntamento.
Alla fine del colloquio mi offrì un mese di prova, orari flessibili, la parvenza di uno stipendio. Quando gli dissi che volevo essere libero di scrivere quello che pensavo, si mise a ridere. Ma che ti credi Vale’, che ti censuriamo? Vai tranquillo che la politica assorbe tutto.
Ho iniziato senza accorgermene. Mi ripetevo che il mese di prova valeva anche per loro, che se non mi fossi trovato bene sarei sempre potuto andar via. Sono rimasto per anni.

Mi alzavo presto, indossavo una delle camicie celesti che mi stirava mia madre, giacca blu, jeans blu e andavo a lavorare alla Camera dei deputati. Non suonava neanche male.
Le lettere che arrivavano erano quasi tutte d’insulti, contro la persona di Bernini e contro la madre. Testa di cazzo, coglione, stronzo, per poi virare sul lato morale, ladro, parassita, nullafacente; sulla madre di Bernini invece l’obiettivo era sempre la sua (della madre) scarsa propensione alla castità. Quelle che non contenevano insulti, contenevano raccomandazioni: presso un ministero, un’azienda pubblica, alle Poste; qualcuno per il figlio laureato in Filosofia chiedeva un posto alla Banca d’Italia. C’erano anche i pratici, un citofono che non funzionava, una buca sulla strada davanti casa che non veniva riparata, i cassonetti dell’immondizia da spostare, un lampione fulminato, o lo schiamazzo notturno di un locale che doveva essere chiuso immediatamente. Le minacce oscillavano tra la promessa di non votare mai più per il partito e la morte violenta. Alcune erano indirizzate in duplice copia, all’onorevole Bernini e al presidente della Repubblica. I miei preferiti comunque erano i sintetici, i quali con lievissime variazioni scrivevano più o meno tutti la stessa cosa: MORITE MERDE!
Cercai svago nei discorsi che Bernini e gli altri del partito tenevano in aula, volevo capirne la struttura, imparare il lessico. I migliori partivano dalla situazione internazionale per poi virare sulle vicende italiane, attaccando gli avversari politici e lanciando, nascosti tra le righe, avvertimenti alle altre correnti. Ma nella maggior parte dei casi la retorica si mangiava quel poco di buono che spuntava e la propaganda di cui erano intrisi li rendeva subito noiosi.
Oltre a occuparmi della corrispondenza dovevo preparare brevi schede tematiche, se Bernini andava a un convegno, a un incontro pubblico, a un dibattito, setacciavo su internet rapporti di ONG, di istituti di ricerca o delle Nazioni Unite, li sintetizzavo, raggruppavo numeri e dati, se trovavo idee o proposte sensate le evidenziavo, nel caso aggiungevo un editoriale e un paio di mie riflessioni, il tutto in tre o quattro cartelle divise per punti. Se Bernini veniva invitato a presentare un libro, lo leggevo al posto suo e gli facevo un breve riassunto. Se doveva andare a un programma radiofonico, gli cercavo le citazioni giuste.
Assaggiavo, ruminavo e sputavo pagine scritte. Mi piaceva.

Bernini ti cerca urgentemente, sbrigati! Laura la segretaria mi aveva chiamato che ero ancora in mutande. Bruciai semafori e incroci sfrecciando su via Salaria più forte che potevo, schizzai nel portone di via del Pozzetto con il documento in una mano e il telefono nell’altra, il metal detector s’illuminò emettendo suoni a intermittenza ma la ragazza dietro al vetro mi fece segno di passare. Le scale due a due, passando davanti alle commesse in divisa quasi di corsa – quasi, ché alla Camera è vietato correre – fino alla porta. Nella stanza non c’era nessuno. Riapparvero con i caffè in mano dopo un tempo che quantificai in colazione con calma, doccia rilassata, musica, nessun semaforo bruciato. Hanno rimandato la seduta al pomeriggio, mi disse Bernini, Abbiamo tempo.
Non sono per forza persone cattive, i ritardatari. Giulia era ritardataria e non era cattiva; Elena era senz’altro più puntuale di Giulia ma non per questo migliore, non con me almeno; io sono un ritardatario, con l’aggravante romana di chi non si sente
in colpa perché ritiene il ritardo una cosa normale, e non per questo mi considero peggiore di Elena, forse di Giulia. Quante volte ho sentito Bernini lamentarsi dei ritardi nei lavori parlamentari, dei rinvii in commissione, dei veti incrociati che facevano slittare i provvedimenti di mesi. Quante volte sono stato convocato urgentemente da Laura, mi sono scapicollato su per le scale di Palazzo Marini dopo aver buttato il motorino nel primo buco libero, per poi scoprire che niente, emergenza rientrata, impegno rimandato, Bernini dice che vi sentite domani con calma. Il tempo in politica può accelerare all’improvviso oppure scorrere placido per giorni, lento fino all’esasperazione, per poi incresparsi di nuovo, come se dovesse montare un’onda inarrestabile e invece sono soltanto riflessi di luce su quel mare di attese. Il tempo della politica non conosce regolarità, non conosce pianificazioni sensate. È emergenza o tedio, accelerazione o immobilità. Assomiglia al tempo dell’amore, ha le stesse curvature distorte.
Stavo imparando a entrarci dentro, in quelle bolle con scritto urgentissimo che poi invece scoppiavano all’improvviso. Non era facile, ma faceva parte del gioco.

 

Alla fine del mese di prova, Laura mi convocò davanti a Bernini. Doveva fare un’interrogazione al ministro della Sanità. Alle parole più adatte da far risuonare nell’aula di Montecitorio io ci pensavo spesso, mi eccitava l’idea delle coscienze del Parlamento e dell’intero paese scosse dalla potenza rivelatrice della verità, Onorevoli colleghi, membri del governo, signor presidente, sdraiato nel letto, la notte, mi capitava di ripetermi in bocca quell’incipit, sognando di attaccarci poi i discorsi più diversi, sempre in difesa degli ultimi e degli oppressi, e quando ero più ubriaco al fianco della rivolta.Voleva che gli scrivessi il discorso. Poteva essere l’occasione per accusare le cliniche private e le case farmaceutiche che s’inventavano emergenze per fare soldi, e magari evidenziare il lavoro dei tanti medici e infermieri che operavano negli ospedali pubblici. Invece niente, i malati rari. Era positivo o negativo che fossero rari, questi malati?
Tu attacca il governo e non ti preoccupare, mi disse Bernini, Scrivi che noi vogliamo aumentare il Fondo sanità e che loro lo vogliono tagliare, senza dare cifre, cercami un esempio drammatico, la lettera di una malata che non trova le medicine perché le case farmaceutiche hanno smesso di produrle per assenza di mercato, una roba del genere, con i figli disoccupati magari, non una vedova però, altrimenti mi dicono che sono veltroniano.
Mi misi al lavoro. Setacciavo, sintetizzavo, copiavo, rielaboravo, controllando i dati mille volte, m’immaginavo i giornalisti attaccarci per una percentuale sbagliata o una citazione inesatta, ogni legge che trovavo rimandava ad altre leggi, normative europee, combinati disposti di decreti e leggi quadro, che a volerli seguire tutti c’era da desiderare la dittatura. Mi ero immaginato il legislatore come una figura scolpita nel marmo, mi accorsi che era un ruscello dai rivoli infiniti.
La sera prima del gran giorno, uscendo dall’ufficio andai dritto da Giulia, mi aprì la porta mordicchiando la stecca degli occhiali dentro un vestito molto corto, i lunghi capelli neri sciolti sulle spalle, Ciao ghostwriter, mi disse dandomi un bacio sull’angolo della bocca.
Giulia non era appassionata di politica, le piaceva che lavorassi alla Camera, le piaceva dire alle amiche che scrivevo discorsi, ma non leggeva i giornali, confondeva le date, i nomi dei partiti, aveva altri interessi, l’architettura prima di tutto, e il suo lavoro di design industriale. Aveva un modo dolce di prendermi la testa tra le mani, di accarezzarmi le tempie. I ragazzi si giravano a guardarle la scollatura che le gonfiava le camicette, che portava con i primi bottoni slacciati, eppure di Giulia non sono mai stato geloso, forse perché ho sempre sentito il suo sguardo addosso, anche nei momenti più difficili. Il suo capo le diceva che disegnava come un maschio, credo che per lui fosse un complimento, lei ci rideva su, in ginocchio sul letto, togliendosi la maglietta e slacciandosi il reggiseno, Ti sembro forse un maschio?, mi diceva.
Fumammo per rilassarci, se chiudevo gli occhi comparivano
dati e numeri sui malati rari, ma tra le sue braccia, se tenevo le mie mani sui suoi seni, il mal di stomaco passava. Continuava a ripetermi cose, che alla nonna per fare un controllo al cuore le avevano dato appuntamento da lì a due anni, che glielo dovevo dire a Bernini che sulla Sanità stavano facendo lo schifo, secondo lei Bernini in aula doveva dire che erano dei ladri, dei mafiosi, Devi fargli dire che sono delle merde; io volevo solo che stesse zitta e spegnesse la luce, mi bruciavano gli occhi.

Quando finalmente il presidente della Camera dall’alto del suo scranno accese il microfono, io stavo nell’ufficio insieme a Laura, in preda ai dubbi sulla sintassi, sulle “i” di scienza e conoscenza, e su altri possibili refusi che in quel momento mi sembravano imperdonabili. L’onorevole Bernini ha chiesto di intervenire prego ne ha facoltà. In piedi, dal banco delle opposizioni, Bernini accese il lungo microfono e salutò gli onorevoli presenti. Diciotto su seicentotrenta. Quando lessi il dato mi prese come se avessi fatto una festa di compleanno e non fosse venuto nessuno. I pochi colleghi di partito erano seduti fuori dall’inquadratura, Bernini parlava in un’aula deserta. Sul banco del governo c’era solo il sottosegretario alla Sanità, dei ministri responsabili dello sfascio del paese nessuna traccia. Elencò i nomi delle malattie rare, i loro sintomi, i costi per le cure, tutta roba che avevo preso da siti specializzati, e si avviò a concludere, un po’ andava a braccio un po’ leggeva, ma era chiaro che aveva tagliato alcune parti. Pochi applausi distratti e scoordinati conclusero l’intervento.

 

Laura annuì senza staccare gli occhi dalla televisione, fino a che non cambiarono inquadratura. Piaciuto il battesimo?
Nelle tasche una sabbia di grani grossi, la sensazione straniante che tra la politica dei caffè e quella parlamentare ci fosse la stessa differenza che passa tra una nave di balenieri e un traghetto d’estate.
E bravo Valerio, mi disse Bernini quando rientrò nella stanza dandomi un buffetto sulla guancia, Tempi giusti, riferimenti precisi, mi hanno fatto un sacco di complimenti, in Transatlantico mi hanno fermato in tanti per stringermi la mano, mica solo quelli del partito, ottimo lavoro ragazzo.

 

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