Arduini: «Tradurre è un’esperienza. E il cammello biblico non passa per la cruna dell’ago»

Il linguista ha scritto un libro sulla traduzione: «Significa ricreare un mondo con gli occhi dell’altro»

Arduini: «Tradurre è un’esperienza. E il cammello biblico non passa per la cruna dell’ago»
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14 Gennaio 2021 - 12.29


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di Rock Reynolds

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Diffido di chi dice che tradurre è un po’ tradire. E ogni volta che qualcuno lascia intendere che la sua traduzione in italiano di un’opera straniera ne ha addirittura migliorato la qualità, mi viene voglia di strapparne le pagine. Del testo italiano, ovviamente. Da traduttore letterario, peraltro, sono sempre più convinto del paradosso secondo cui la traduzione letteraria debba essere letterale. Eppure, Con gli occhi dell’altro. Tradurre (Jaca Book, pagg 216, euro 18) del professor Stefano Arduini, linguista di grande fama, in parte scardina le mie certezze. Ma in parte le corrobora.
Gli occhi dell’altro quali sono? Quelli che servono per traslare un concetto da una lingua all’altra, adattandone la forma all’identità culturale della lingua di destinazione e, in tal modo, finendo per creare qualcosa di nuovo. In tal senso, sì, la traduzione diventa un processo creativo.
Per affrontare il discorso, Arduini fa un profondo preambolo finemente teorico, una specie di epistemologia della traduzione, entrando nella radice del senso stesso di concetto e nella sua ridefinizione di “entità complessa e molteplice”, di “rappresentazione mentale che modella, elabora, conserva e trasferisce la conoscenza”, che ha “caratteristiche specifiche delle culture” e confini “indefiniti e mobili”. 

Da dove nasce l’idea di scrivere questo libro?
Questo libro raccoglie una vita di studi, una serie di riflessioni che vanno avanti da almeno una quindicina d’anni. Il libro è impostato su due livelli, con una parte un po’ più teorica nei capitoli iniziali e nell’ultimo capitolo, e nel mezzo una serie di casi specifici in cui si manifesta la mia idea di traduzione come qualcosa che in realtà cambia la storia delle culture e i concetti, che nasce come una cosa e poi diventa un’altra.
Tradurre è un mestiere o un’operazione creativa?
Dipende da cosa si intende per mestiere. La traduzione ha un ruolo importante perché è un’esperienza e non una prassi. Ed è pure una riflessione. Lo dico chiaramente nel libro: in quanto esperienza, etimologicamente significa passare attraverso qualcosa. Si tratta di un pensiero della lingua diverso da quello che potrebbe essere una semplice lettura. Ovviamente, ci sta che si possa definire il tradurre un mestiere perché la traduzione implica una serie di tecniche da apprendere, come succede nella scrittura. Ed esistono le scuole di scrittura creativa, ma apprendere le tecniche non implica automaticamente essere scrittori. In questo senso, la traduzione ha qualcosa di straordinario, ovvero il mettere insieme ciò che è diverso cercando di trovare il simile. La peculiarità della traduzione è che ha a che fare con un tipo di creatività che si basa su qualcosa che già esiste. È una forma di riscrittura e nessun tipo di scrittura viene dal niente: c’è un testo che già esiste e il traduttore ha limitazioni più o meno stringenti. Per esempio, molti anni fa, tradussi il Cantico Spirituale di Giovanni della Croce, un caso estremo, in quanto oltre al testo dovetti tradurre le stesse note in cui l’autore spiegava il senso di questa o quella espressione.
C’è differenza tra tradurre un testo sacro e uno profano, un testo antico e uno moderno?
I testi possono essere lontani nello spazio e nel tempo. Come quando si traducono lingue insolite e come quelle dell’Amazzonia, che contengono il tempo non nel verbo bensì nel sostantivo. Il problema non è la diversità di una lingua ma la sua lontananza dalla nostra cultura, che implica uno spazio intraducibile, impossibile da colmare nel tempo. Poi c’è il problema dello scopo per cui si traduce. Nel caso di un testo sacro, lo si può tradurre come testo poetico oppure liturgico oppure come parte di una Bibbia riconosciuta. E poi, ovviamente, la traduzione di un testo sacro dipende pure dal fatto che il traduttore sia credente o meno.
La traduzione di certi testi da lingue orientali o mediorientali a lingue occidentali ha cambiato il corso della storia?
Pensiamo a cos’è il cristianesimo, l’incontro tra due culture che si traducono, quando si inizia a tradurre la Bibbia. E da due tradizioni ne sorge una terza. La Bibbia dei Settanta  fu tradotta nel II secolo avanti Cristo in greco, creando una terminologia fondamentale utilizzata anche nel greco dei Vangeli. Ogni volta che si traduce, si crea qualcosa di nuovo. Buona parte di quella che oggi consideriamo la cultura occidentale cristiana è frutto di una sorta di traduzione di concetti ebraici in greco che ora non sono più né ebraici né greci. È l’elemento affascinante della traduzione, ovvero la creazione di uno spazio che prima non esisteva, una costante ridefinizione di cose che vanno verso un luogo diverso da quello d’origine.
La più grande svista in una traduzione che lei ricordi?
Semplicissimo: la classica traduzione biblica della cruna dell’ago nel passo, “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. Non si tratta in realtà di una cruna, ma di una cosa che, per semplificare un lungo discorso sul greco, è una gomena.

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