Maradona, mito popolare dell’Argentina decaduta come il Gardel di Soriano

Lo scrittore descrisse il tanguero adorato da Che Guevara con parole applicabili al campione. E lo segnalò ad Arpino come possibile acquisto del Torino nel 1978

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26 Novembre 2020 - 12.17


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di Marco Buttafuoco

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Il divino scorfano, così lo chiamava Gianni Brera. In effetti Maradona non era certo il prototipo dell’atleta, palestrato e patinato, di moda oggi. Era però agile come una farfalla, come lo definì Michele Gelsi, un calciatore toscano che lo incontrò da avversario solo una volta. Per il centrocampista elbano della Fiorentina, era l’esordio in serie A.

Quasi tutto è già stato detto sul brutto anatroccolo e il rischio della banalità è a dir poco, altissimo. Quando ieri ha cominciato a girare la notizia, orfano come milioni di calciofili dipendenti, ho ripensato a lungo a Osvaldo Soriano, il grande scrittore argentino, al quale si devono probabilmente le pagine letterarie sul calcio migliori, non grondanti di retorica o di manierismo tecnicistico. Soriano, se non fosse stato per un grave infortunio, sarebbe diventato un calciatore professionista, un attaccante di vaglia. La circostanza lo porterà diventare prima cronista sportivo, poi giornalista tout court e grande romanziere. Morto nel 1997 a soli cinquantatré anni, conosceva Maradona. Lo segnalò a Giovanni Arpino, suo grande amico, nel 1978, come acquisto possibile per un Torino allora in crisi di gioco e di prospettive. Perché non lo segui più? Perché un personaggio come El Pibe de Oro non entra nelle sue storie surreali sul football? Perché rimane fuori dalle incantevoli serie di racconti e ritratti che Soriano scrisse da giornalista, raccolti in Italia in due volumetti Einaudi: Artisti, pazzi e criminali e Ribelli, sognatori e fuggitivi? È difficile dirlo, ma in realtà in quelle pagine si parla spesso del destino della storia argentina e di quel senso di frustrazione che i nostri cugini (che tali sono) d’oltreoceano provano davanti alla loro storia. La storia di un paese che fra le due guerre era diventato una specie di granaio del mondo, una delle prime dieci potenze economiche. Era arrivato a questa posizione rifornendo di grano e carne un mondo stremato dalle vicende belliche. Lentamente poi il paese declinò e si trascina da decenni fra crisi economiche sempre più dolorose e devastanti e illusioni di rinnovamento affidate a quella forma particolare di populismo autoritario che fu chiamato Giustizialismo o Peronismo.

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La storia di questa decadenza, secondo Soriano è riassunta nella figura più simbolica dell’anima argentina: Carlos Gardel. Il grande, tuttora insuperato, tangueiro, ebbe una vita breve e intensissima, ebbe fama internazionale ed era di casa in una Parigi che lo adorava, come adorava tutto quello che sapeva di esotico. Poi la sua stella si spense, non per dissipazione, come quella di Maradona, ma per un incidente aereo nel quale trovò la morte, nel 1935, in Colombia. Lasciò una leggenda dietro di sé, così come Eva Peron, morta anche lei giovanissima creando un mito quasi pagano di santità e dedizione al suo popolo. “Come l’Argentina Gardel coltivò l’apparenza e il segreto, arrivò in vetta, e ottenne che i grandi d’Europa lo riconoscessero come un loro pari e quando stava per entrare sotto i riflettori di Hollywood, il destino se lo è portato via. Come l’Argentina. Nella semplice vita di Carlos Gardel si può riassumere se la saga del popolo che l’ha reso immortale”.

Queste parole potrebbero anche attagliarsi, salve le differenze storiche e biografiche, a Maradona, il cui declino fu però più lento e doloroso, più brutto. E anche di Gardel si diceva che cantasse per le élite sudamericane, ma in realtà appoggiasse anche movimenti guerriglieri. Entrambi furono uomini dello Show Business ed entrambi simpatizzanti di movimenti di rivolta. Che Guevara, adorava Gardel. Alcuni tanghi dell’artista, come Yira Yira e Cambalache, furono proibiti dal bieco regime di Videla, poiché troppo pessimisti e disfattisti. Il Gardel raccontato da Soriano, che in smoking mangia salame e beve champagne nelle tristi cantine di un albergo parigino, somiglia molto al Maradona popolano, all’uomo delle periferie sterminate di Baires. L’Argentina poteva, secondo Soriano, proporre solo miti popolari. Il colto Borges, l’intellettuale algido e raffinato, che pur cantava le periferie popolari di Baires, non poteva rappresentare l’anima del paese delle pampas. “Il fatto – scriveva Soriano ad Arpino, nella stessa lettera in cui gli parlava di Maradona – è che noi argentini siamo molto sentimentali. Dicono che siamo degli italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi. A volte è vero, salvo nel caso di Jorge Luis Borges, uno scrittore geniale che è inglese, parla spagnolo e si crede argentino”.

Viene da pensare che a Diego sarà tributata negli anni a venire una sorta di culto laico, nonostante le sue discusse vicende extra calcistiche E l’ennesimo simbolo di un paese che non riesce a decollare e vive di miti. Un paese in larga parte italiano.

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