Dare un nome agli affogati: Cristina Cattaneo scrive le storie dei migranti

Dalla pagella cucita nell'abito alla manciata di terra, in "Naufraghi senza volto" l'esperta in medicina legale racconta le tracce seguite per identificare chi muore nel Mediterraneo

Dare un nome agli affogati: Cristina Cattaneo scrive le storie dei migranti
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11 Febbraio 2019 - 18.09


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“Identificare i morti significa pensare ai vivi che stanno dietro ai morti”. Lo ha detto Cristina Cattaneo, docente di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Milano e direttore del Labanof (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense) a Marcello Floris a una recente puntata di “dimartedì” introducendo il suo libro Naufraghi senza volto. Dare un nome alle vittime del Mediterraneo (Raffaello Cortina Editore, pp. 198, € 14), dato alle stampe nel novembre scorso e che rimbalza sempre più spesso nei media e sul web. Perché è un libro che possiamo definire di antropologia, forse non a caso scritto da una donna, e che compie uno scarto culturale potente rispetto alla fredda contabilità degli affogati nel Mediterraneo dal quale è facile sentirsi lontani.
“Identificare i morti è fondamentale, vuol dire pensare alla salute mentale di una madre che non sa più se il figlio è vivo o morto e si sa che questo limbo porta disturbi psichiatrici tremendi”, spiega il medico legale a Floris. Ma questo lavoro ha anche un risvolto pratico importante: “con certificati di morte” permette “atti amministrativi, penali civili fondamentali”. Per i figli del morto, per esempio. Ai quali non pensiamo.

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Cristina Cattaneo ricostruisce pezzi di vita ricavati dagli zaini, dagli abiti, dalle tasche, raccoglie indizi per risalire al paese di provenienza della persona affogata: bambino, donna, uomo. E attraverso una foto, una tesserina di una biblioteca di un ragazzo ghanese, un frammento di tessuto, la pagella cucita nelle tasche di un ragazzo del Mali («Bulletin scolaire … mathematiques, sciences physiques&hellip»), spazzolini da denti, auricolari fino a quel giovane che dall’Eritrea si è portato dietro una manciata di terra in un sacchetto, l’autrice cerca di risalire al volto, al corpo, di quella persona e pensando ai suoi familiari, amici e parenti rimasti nel paese di origine.

Questa identificazione, difficile, dolorosa, non avviene in una fiction tv. La compiono antropologi, patologi e medici forensi. «Il corpo di un migrante deve avere la stessa dignità del corpo di qualunque altro», ha dichiarato l’autrice in un video diffuso dall’editore e realizzato con Freeda. «Naufraghi senza volto parla di una grave violazione dei diritti umani che sta avvenendo sotto i nostri occhi, per la quale nessuno fa niente».

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Perché ha scritto il libro? L’autrice lo ha detto: perché non si dimenticasse come l’Italia tra il 2013 e il 2017 l’Italia abbia almeno provato a restituire identità ai morti. Perché dovremmo ricordarlo sempre, dacché ognuno di noi ha partecipato a qualche funerale e sa o dovrebbe rammentare quanto sia essenziale per noi umani il rito dell’addio, del lutto.
La data – spartiacque su naufragio del 3 ottobre 2013 vicino a Lampedusa. Da quella tragedia sono scattati i procedimenti di riconoscimento che si fanno quando un aereo precipita in mare o una nave affonda. Foto, tracce, radiografie, si cerca di risalire al nome del morto e le famiglie che ottengono una risposta sanno almeno che il loro caro è affogato. Ma non sapere è peggio. Infatti le famiglie cercano di sapere ma spesso è impossibile.

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