"Cold case": quando si scopre l'insospettabile assassino

Due femminicidi del 1987, di Lidia Macchi e di Rosaria Palmieri, un serial killer stupratore in California: casi risolti decenni dopo. E non sono una fiction

"Cold case": quando si scopre l'insospettabile assassino
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16 Maggio 2018 - 19.06


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Enzo Verrengia

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Cold case, alla lettera “caso freddo”. Ossia un delitto insoluto risalente ad anni prima. L’incubo dei parenti delle vittime, nonché delle forze dell’ordine, che devono sciogliere enigmi sepolti nel passato. Ma anche in queste circostanze, a volte il tempo è galantuomo, o meglio risolutore, perché porta a rivelazioni decisive per incriminare i colpevoli e consegnarli alla giustizia, che non mette in prescrizione gli omicidi.
Ne viene un esempio eclatante dalla cronaca dei scorsi giorni. Quello avvenuto la notte fra il 5 e il 6 gennaio 1987 nel Varesotto oggi si definisce “femminicidio”, dal termine coniato nel 1990 dalla femminista Jane Caputi e dalla criminologa Diana. E. H. Russell.

Lidia Macchi, studentessa allora ventunenne in legge alla Statale di Milano, era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio, per poi tornare a cena nella sua abitazione di Casbeno, alla periferia di Casbeno, dove viveva con i genitori. La ragazza non arrivò mai a questa seconda destinazione. L’amica internata riferì di aver salutato la Macchi alle 8 e 10. L’auto della scomparsa non c’era nel parcheggio della struttura ospedaliera. Lidia frequentava Comunione e Liberazione e gli scout. Le due associazioni organizzarono una ricerca capillare. Il cadavere della Macchi fu trovato il 7 gennaio nel bosco di Sass Pinì, coperto di cartoni e parzialmente denudato.
Si accertò che la ragazza aveva subito violenza sessuale e 29 coltellate. Il titolare dell’inchiesta, il Pm Agostino Abate, appuntò i primi sospetti su Antonio Costabile, il sacerdote coordinato del gruppo scout cui apparteneva la Macchi. Il suo alibi la sera del delitto non teneva granché, inoltre nella borsa della morta era stata trovata una delirante lettera d’amore. Un’altra, dalle morbose allusioni sessuali, arrivò ai suoi genitori. Costabile e altri due religiosi implicati vennero assolti grazie agli esami del Dna impiegati per una delle prime volte in Italia nell’analisi di compatibilità dei resti organici trovati sul corpo della Macchi. La riapertura del caso nel 2013 fu dovuta a un imbianchino. Giuseppe Piccolomo si era vantato fin dal 1987 con le figlie di avere ucciso Lidia Macchi. L’uomo era già in carcere da due anni per avere assassinato nel 2009 una pensionata di Cocquio, sempre in provincia di Varese.

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L’ex compagno di scuola

Anche lui fu scagionato dall’esame del Dna, nel 2016. In televisione fu mostrata la lettera trovata nella borsa della Macchi. Un’amica della ragazza riconobbe la grafia di Stefano Binda, ex compagno di scuola di Lidia. Dopo una serie di altri riscontri, l’uomo fu ufficialmente accusato di omicidio venerdì, 15 gennaio 2016. Personalità complessa, impregnato di studi filosofici e disoccupato, fece dividere la comunità locale in colpevolisti e innocentisti, con una netta prevalenza di questi ultimi. Il 24 aprile scorso, i giudici della Corte d’Assise di Varese hanno condannato Stefano Binda all’ergastolo.
Il figlio scopre la verità sul padre
Ancora un delitto risolto, o meglio rivelato, che risale sempre al 1987. Liborio Scudera, a 35 anni, nel 2016, ha scoperto che la madre non lo aveva abbandonato, come credeva, perché invece era stata uccisa dal padre, Vincenzo. Secondo la versione di quest’ultimo, raccontata al figlio, la moglie, Rosaria Palmieri, l’aveva tradito con un altro uomo, scappando con lui. Dopodiché Vincenzo Liborio si era trasferito da Gela a Pesaro con la cugina della moglie, la sua nuova compagna. Addirittura, quattro anni dopo la “fuga” di Rosaria, il marito aveva chiesto il divorzio.
Intanto Liborio cresceva a Pesaro, diventava imprenditore edile e sposava un’avvocatessa, Elisa Parini. La verità l’ha sentita nel 2013 dalla nonna materna, a Gela, durante una delle visite in Sicilia: «Tua madre non è scomparsa, non ti ha mai abbandonato, non è fuggita con un altro uomo, è stata uccisa da tuo padre». La donna ha nascosto per anni la verità nel clima di omertà e violenza della Sicilia. Del resto, aveva già perduto il marito e il figlio, uccisi, e il genero le faceva paura. La signora Parini, moglie di Liborio, ha inviato una mail ai carabinieri di Roma, è partita l’inchiesta e nonostante Vincenzo abbia dichiarato ripetutamente la propria innocenza, è stato condannato all’ergastolo, grazie anche all’impegno della procuratrice di Gela, Lucia Lotti, che è riuscita a ottenere dalla madre di Rosaria e da altre donne la conferma della confessione fatta a Liborio. E tutto questo senza che fosse mai stata sporta una denuncia per la scomparsa della Palmieri, né che se ne fosse ritrovato il cadavere. In realtà aveva scoperto dapprima una lettera della cugina al marito, allora in carcere, e poi una collana d’oro nei pantaloni, sempre destinata alla donna con cui Vincenzo la tradiva.
In California accadde
La scena si sposta in California, dove negli ’70 e ‘80 imperversava la tenebrosa figura soprannominata Original Night Stalker. Gli si attribuirono 12 omicidi e 45 stupri. Il mostro riuscì a farla franca per 40 anni. Finché nei media non è stata annunciata da qualche giorno la cattura dell’ormai settantaduenne James DeAngelo, peraltro ex poliziotto. La sua escalation criminale iniziò il 18 giugno 1976 con l’irruzione in una casa dove viveva una donna sola insieme al proprio bambino. DeAngelo, brandendo un coltello da macellaio immobilizzò tutti e due con legacci, li bendò e stuprò la malcapitata, Jane. A incastrarlo, dopo quattro decenni d’indagini instancabili è stato Paul Holes, detective della Contea di Contra Costa, in California. A dargli l’illuminazione è stato un libro della giornalista Michelle McNamara, I’ll Be Gone in the Dark (Me ne andrò nel buio) dedicato proprio alla vicenda.
Casi freddi, ma mai ibernati nella coscienza delle persone coinvolte, che nella società civile devono scontare le proprie colpe in questa vita, nel rispetto della legislazione penale.

 

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Giustizia dopo 31 anni dall’omicidio di Lidia Macchi: ergastolo per Stefano Binda

 

 

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