Una laurea con qualche critica

Era stata approvata da tutti gli organi accademici ma poi contestata da qualche docente e dagli studenti. Un pacato confronto.

Una laurea con qualche critica
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25 Settembre 2025 - 18.56


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Abbiamo atteso che il rito della laurea ad honorem a Steve McCurry si svolgesse con i ritmi propri di cerimonie come questa per poi dare spazio anche ad alcune posizioni critiche. Va ricordato che la laurea ad honorem è stata conferita al noto fotografo dopo l’approvazione con voto unitario in tutti gli organismi che se ne erano occupati. Ne consegue che proprio in quei luoghi e in quei momenti andavano espresse critiche ed eventuali proposte di cambiamento.

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Già prima che la cerimonia si svolgesse, a dire il vero, Riccardo Putti aveva inviato un’argomentata lettera con la quale motivava il suo disaccordo con questa decisione. Passata la Laurea non si possono tacere alcune voci di dissenso che si sono levate. Fra queste riteniamo che la lettera inviata al Rettore, ai docenti e agli studenti da parte delle studentesse e gli studenti del corso di Antropologia e linguaggi dell’immagine sia quella che illustra e documenta meglio i motivi del dissenso. Su questa posizione già si sono detti disponibili a un sereno confronto gli stessi studenti, i docenti e la direzione del Dipartimento


LA LETTERA DELLE STUDENTESSE E DEGLI STUDENTI DI ANTROPOLOGIA E LINGUAGGI DELL’IMMAGINE

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“Noi studentesse e studenti del corso di Antropologia e linguaggi dell’immagine dichiariamo la nostra più profonda indignazione di fronte alla decisione di conferire la laurea magistrale ad honorem in “Antropologia e linguaggi dell’immagine” a Steve McCurry. A nostro parere si tratta di una scelta inaccettabile sul piano epistemologico e soprattutto su quello politico e invitiamo i nostri docenti e il rettore Di Pietra a riflettere con serietà sul significato di questo gesto. 

Ci chiediamo quale sia la credibilità di un corso di studi in antropologia visiva che accetta di celebrare una carriera che ha fatto della manipolazione estetizzante la propria cifra stilistica, quando in aula viene insegnato a decostruire e decolonizzare lo sguardo, a riconoscere, scardinare e non riprodurre pratiche che estetizzano l’altro, che riducono le complessità culturali a icone esotiche e cancellano la voce e l’agency dei soggetti protagonisti. Quale messaggio si sta comunicando a coloro che si avvicinano oggi a questa disciplina? Perché dev’essere proprio il nostro settore a reiterare questa assoluta  contraddizione che ci chiede, giustamente, di imparare a ri-vedere l’altro e poi ci dimostra che l’altro non sarà mai guardato con occhi diversi rispetto a quanto non sia stato fatto finora, vanificando, tradendo e rendendo utopiche quindi le parole e gli immaginari che attraversano e formiamo nelle nostre aule? 

Ecco che come persone che hanno a cuore l’antropologia sentiamo essere necessario condividere al rettore Di Pietra — che forse non ne è a conoscenza — e ai nostri stessi docenti — che talvolta sembrano dimenticarlo — principi teorici e metodologici specifici profondamente diversi da quelli impiegati da Steve McCurry sui quali l’antropologia visiva poggia le sue basi:  L’antropologia visiva non si limita a produrre immagini suggestive, essa esige una descrizione densa data dalla capacità di connettere i dati visivi a un quadro interpretativo che restituisca la complessità delle pratiche sociali. Le foto prodotte da McCurry estetizzando la realtà, non ne restituiscono la complessità, la quale viene piegata alla lente dello sguardo occidentale.

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La celebre fotografia Afghan Girl è emblema dello sguardo coloniale  dell’autore: il soggetto viene strappato dalla sua storia e dal suo contesto sociale per incarnare stereotipi di alterità occidentali, schermati da filtri e colori sgargianti, i quali rendono l’immagine certamente iconica, ma dicono molto più dell’autore e del suo gusto, che della donna ritratta. 

L’antropologia visiva dovrebbe muoversi nella direzione opposta, problematizzando lo sguardo coloniale e lavorando per garantire agency e voce ai soggetti. Le pratiche di antropologia visiva privilegiano approcci partecipativi e soprattutto forme  di autorappresentazione. Modellare la realtà per rispondere al proprio gusto estetico significa appiattirla, eliminare le contraddizioni, con il rischio di dare forma ad un “Altro” stereotipato. L’antropologia visiva è inscindibile dall’osservazione partecipante, dall’analisi critica e dalla costruzione teorica, assenti nel lavoro di McCurry. Il lavoro di McCurry riproduce le dinamiche di potere che fanno dell’altro il soggetto-oggetto dello sguardo occidentale sulle società “Altre”.

L’antropologia visiva si impegna, invece, a decentrare questa prospettiva. Essa dovrebbe valorizzare il lavoro di fotografi e videomaker che portano avanti narrazioni e rappresentazioni autentiche: di sé, della propria terra e del proprio popolo, capaci di incarnare l’agentività dei soggetti rappresentati. Premiare McCurry significherebbe rafforzare la centralità di un modello visivo egemonico — bianco, occidentale, borghese —, piuttosto che aprire spazi di pluralità e dialogo. Premiare McCurry è un gesto inaccettabile perché significa legittimare un approccio che appartiene al fotogiornalismo e al mercato dell’arte e non all’antropologia visiva. Significa confondere lo sguardo critico con lo sguardo coloniale, quello che riduce vite e corpi a immagini patinate per lo sguardo occidentale.

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Significa trasformare il nostro corso di studi in una vetrina di marketing, svuotando la disciplina della sua specificità teorica e metodologica. Attribuire questa laurea non è un atto neutrale. È un gesto politico che riafferma la supremazia dello sguardo occidentale e marginalizza le produzioni indigene, i tentativi di decentrare l’immaginario, le lotte che l’antropologia visiva ha portato avanti per decenni.

È un tradimento dei valori che l’Università dovrebbe difendere: la ricerca critica, la responsabilità epistemologica, la coerenza etica.  Perciò esigiamo che la decisione venga ritirata. Se davvero si volesse compiere un gesto coerente e significativo, la laurea dovrebbe essere conferita a Sharbat Gula, la donna ridotta a icona e privata per decenni della propria voce, e non a chi su quella immagine ha costruito fama e carriera.

Rettore Di Pietra, docenti:
con questa scelta state assecondando logiche di convenienza e spettacolarizzazione che nulla hanno a che fare con la disciplina che pretendete di rappresentare. Avete premiato l’ignoranza antropologica, trasformandola in onore accademico. Noi non ci riconosciamo in questa decisione. Noi non ci stiamo.
CHIEDIAMO CHE LA LAUREA AD HONOREM VENGA OFFERTA A SHARBAT GULA
Se questo nome non ci risulta familiare, siamo evidentemente chiamati a metterci in discussione.

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Distinti saluti, 
le studentesse e gli studenti del corso di Antropologia e linguaggi dell’immagine

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