Nel 1985 usciva We are the world: È difficile oggi ripercorrere quella strada

Quarantacinque artisti si misero insieme per combattere la fame nel mondo. Oggi sembra mancare, anche nella musica, la capacità di mettersi in insieme sui rilevanti fenomeni sociali. Il peso dell' industria culturale.

Nel 1985 usciva We are the world: È difficile oggi ripercorrere quella strada
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18 Marzo 2025 - 13.38


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di Manuela Ballo

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“Arriva un momento in cui abbiamo bisogno di una certa chiamata quando il mondo deve tornare unito”: inizia così una delle canzoni più conosciute di sempre, “We are the world”.  Era il 28 di Gennaio del 1985 quando quarantacinque tra gli artisti più famosi dell’epoca si dettero appuntamento all’ interno degli A&M Recording Studios di Los Angeles per cantare. A unirli era una causa comune: raccogliere fondi per combattere la fame in Africa, e in particolare in Etiopia, colpita da una gravissima carestia che aveva causato almeno 1 milione di morti.

Nasceva così , grazie a Michael Jackson e Lionel Richie che ne hanno composto il testo, e al produttore Quincy Jones, uno dei brani che dimostra quanto la musica a volte possa non solo divertire ma anche aiutare, facendo la differenza, ad affrontare situazioni particolarmente critiche. Veniva così, almeno per una volta, superata la logica del profitto personale dei singoli artisti e delle case di produzione.

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La musica, quella musica, si trasformava quindi in un potente canale di comunicazione e dimostrava quanto fosse ancora in grado di trasmettere, attraverso suoni e parole, emblematici e potenti messaggi, come quello di combattere la fame nel mondo.  Furono, gli Ottanta, una stagione che ha visto un picco di interesse legato alle cause umanitarie. Erano d’altronde gli anni della prima grande globalizzazione. Da lì in poi avremmo assistito a una lenta e graduale diminuzione di questa funzione della musica.

Le iniziative degli artisti legate alla sfera sociale non sono del tutto scomparse ma hanno perso la forza evocativa di un tempo. Pochi i casi simili a quello sopracitato, uno dei rari esempi che ha tratto ispirazione proprio da “We are the world” è legato al singolo di beneficenza “Domani”. Dopo il devastate terremoto che aveva distrutto l’Aquila  un gruppo di artisti italiani, 56 per la precisione, si riunirono, nel 2009,  per sostenerne la ricostruzione.  Prendeva forma quel gruppo di artisti, oggi da tutti conosciuti, e che ha  poi raccolto fondi per il Conservatorio “Alfredo Casella” e il Teatro Stabile d’Abruzzo. Tanti i protagonisti  tra i quali ricordiamo Zucchero, Giorgia, Elisa, Gianna Nannini, Laura Pausini  e poi Jovanotti, Ligabue, Tiziano Ferro e molti altri.

Da quel lontano 1985, quando gli artisti di “We are the world” si riunirono,  erano già  passati quasi venticinque anni,  prima che quell’insieme di cantanti e di gruppi italiani si mettessero insieme per contribuire a sanare una delle piaghe italiane.  Non sono mancati, da allora, singoli episodi di artisti che hanno scritto e cantato testi contro la guerra o su altri temi sociali emergenti. O i concertoni, più o meno impegnati, del Primo Maggio.  Né sono mancati concerti per ricordare anniversari di questo o quell’evento musicale o le grandi adunante all’Arena di Verona  per onorare questo o quel cantante. Sono aumentati i duetti o  le comparsate di gruppo in televisione, ma è venuta meno quella coralità che aveva caratterizzato l’impegno per l’Aquila.

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A distanza di così tanto tempo viene da chiedersi perché le canzoni trasmettano così pochi messaggi e perché tanto silenzio permane attorno agli attuali drammi dell’umanità, come l’annientamento del popolo di Gaza o la terribile guerra in Ucraina.  Senza considerare che la morte per fame permane, come le carestie in parti consistenti del pianeta, come l’Africa, che sono abbandonate a se stesse.

Tutto ciò, compreso il più recente assolutismo di Trump, dovrebbe rappresentare un terreno fertile per le creazioni artistiche, per dar luogo a partecipazioni corali. Per la musica, in particolare. Eppure proprio in questo scenario balza agli occhi l’ingombrante silenzio.  Tutti sembrano chiusi nel loro piccolo e particolare mondo, nel “Piccolo mondo antico” , come lo chiamava Fogazzaro. E’ come se, chiusi in una bolla, tutti o quasi, siano incapaci di andare oltre la singola esistenza o il singolo interesse.  Sembriamo esser molto più informati di prima, addirittura  sottoposti a un “overload” informativo, ma è solo un grande gioco del sistema mediatico. E la musica , come tanti altri settori della produzione e del consumo dello spettacolo, sono finiti anima e corpo dentro questi trabocchetti dell’industria culturale.

Le etichette discografiche indipendenti sono ormai una rarità; ad attirare sono prevalentemente solo i mega-concerti per di più costosissimi; c’è minore attenzione verso il cantautorato. Insomma sembra che non ci sia una decisa risposta alla logica del profitto, spingendo artisti, case discografiche, radio e interi programmi televisivi (pensiamo al San Remo di quest’ anno) a decidere di non affrontare con coraggio questioni che invece, purtroppo, sono all’ordine del giorno.  Ma è mai possibile che le immagini di quei deportati, piegati e con le catene alle mani e ai polsi, facciano rimanere i nostri artisti così indifferenti?  Musicisti e artisti se ci siete battete un colpo. Come fecero i vostri colleghi in quel lontano 1985: “Arriva un momento in cui abbiamo bisogno di una certa chiamata quando il mondo deve tornare unito”.

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