"Il gabbiano" di Cechov diretto da Leonardo Lidi al Vascello di Roma

Leonardo Lidi dirige "Il gabbiano" senza protagonismi. Uno spettacolo corale dove l'unico protagonista è il testo

Christian La Rosa e Giuliana Vigogna - “Il gabbiano”, prima tappa del progetto Cechov del regista Leonardo Lidi - recensione di Alessia de Antoniis
Il gabbiano - Christian La Rosa, Giuliana Vigogna - ph Gianluca Pantaleo
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5 Marzo 2023 - 12.56 Globalist.it


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di Alessia de Antoniis

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Applausi di una platea piena di giovani al teatro Vascello di Roma per la prima romana de “Il gabbiano”, prima tappa del progetto Cechov del regista Leonardo Lidi. Una produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi.

Il progetto prevede una trilogia che proseguirà con altri due testi del drammaturgo russo: “Zio Vanja” e “Il giardino dei ciliegi”.

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In scena Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna, Angela Malfitano.

Lidi, vicedirettore e coordinatore della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino e direttore artistico del “Ginesio Fest”,  ben dirige un’orchestra armoniosa di dieci attori. E un gabbiano morto. Per un testo che parla di teatro e di divario generazionale.

“Un gabbiano viene ucciso per la mano vigliacca di un giovane in riva al lago e, se potesse parlare, avrebbe tutto il diritto di chiedere al suo assassino, il giovane Konstantin, il perché di tanta ingiustificata cattiveria”. Così Lidi nelle note di regia.

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In scena un mazzo di fiori, un dono d’amore, sbattuti su una panca con violenza, con ingiustificata cattiveria: sono gli stessi che, coperti da un fazzoletto, sono il corpo morto del gabbiano. Il corpo morto del teatro. O dei sentimenti. O degli ideali.

Nel proscenio una panca: la mise en place di Lidi, ridotta all’essenziale, non necessita d’altro. Sedie allineate in fondo: tutti gli attori sono quasi sempre in scena, attori e spettatori al contempo, su un palco che è semplicemente se stesso e dove c’è spazio per tutte le tradizioni “per le nuove e per le vecchie”. Niente lago. Le scene di Nicolas Bovey non richiamano la campagna russa, mentre i costumi di Aurora Damanti non riproducono ingombranti abiti ottocenteschi: anche loro esprimono una sospensione spazio-temporale. Rappresentano la “cara noia della campagna”, dove “non c’è nessuno che faccia qualcosa, tutti filosofeggiano”.

Niente attrezzi di scena. Solo uno: il testo. Recitato in modo veloce, senza grandi pause, a volte sussurrato. Ma siamo in teatro, non sul set e, per quanto microfonati, qualcosa sfugge.

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Lidi affronta Cechov per la prima volta e, contrariamente alla sua passione per la rielaborazione del testo, stavolta lo conserva com’è. Lo rispetta.

C’è l’umorismo non ostentato, studiato, armonico come la pausa in uno spartito. Il simbolismo è lasciato, ove c’è, alla comprensione dell’ascoltatore, liberando lo spettatore da quell’enfasi a volte esagerata che parte della nostra tradizione teatrale ha addossato all’autore russo.

La regia di Lidi ci restituisce il testo cechoviano nella banalità della sua trama. Anche il suicidio di Konstantin (Christian La Rosa) passa quasi inosservato, come facente parte di una routine. Tutti concentrati verso un futuro che non si concretizza; desiderosi di vivere in un altrove, come Mosca, che più che una possibilità diventa un’ossessione. Tutti, senza saperlo, personaggi di quel dramma scritto da Konstantin e che mai andrà in scena, dove il giovane drammaturgo ipotizza come sarà la Terra tra duecentomila anni.

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Tutti ingabbiati, in realtà, nel traliccio delle luci di scena che nell’ultimo atto scendono al suolo e dal quale si illudono di fuggire. Ingabbiati in quel cristianesimo che li spinge ad accettare passivamente la gabbia delle sofferenze sperando nella vittoria in un mondo altro, più lontano di Mosca, più lontano della stessa vita.

Una regia apparentemente assente, quella di Lidi, dove le parole non lasciano troppo spazio alla forma, dove il gabbiano, con tutti i simboli celati tra le sue piume, vola sempre basso. Una regia senza inutili protagonismi.

Una messa in scena dove la coppia Arkadina (Francesca Mazza) Trigorin (Massimiliano Speziani) spicca più di quella composta dai due giovani Konstantin (Christian La Rosa, vincitore del Premio Ubu 2017 come miglior attore performer under 35) Nina (Giuliana Vigogna premio Ubu 2016, come miglior attrice Under 35 per “Santa Estasi” – nomination ai premi Ubu 2022).

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Il teatro maturo ha la meglio sul teatro giovanile?

Da sottolineare la recitazione brillante dell’attrice Orietta Notari nella parte di Sorin.

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