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Parte il primo viaggio interstellare. Con la Nasa e soldi privati

La data: 2069. La meta: Alpha Centauri. Tra i finanziatori Zuckerberg di Facebook. Come superare l'ostacolo del tempo? L'astrofisico Stephen Hawking ha avuto un'idea

Parte il primo viaggio interstellare. Con la Nasa e soldi privati
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28 Dicembre 2017 - 11.04


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Enzo Verrengia

 

La Nasa annuncia la prima missione spaziale intestellare nel 2069 verso Alpha Centauri, che per essere il sistema stellare più vicino alla Terra dista comunque 4,3 anni luce, ossia 40mila miliardi di chilometri. Arrivarci richiederebbe 30mila anni. Ma la durata proibitiva di questo tragitto verrebbe “ridotta” entro i limiti di una sola generazione. Basta una “vela” sospinta da un raggio laser che le farà guadagnare un quinto della velocità della luce.
Non si tratta della solita bufala su Internet, bensì dello studio effettuato dallo studioso più celebre degli ultimi decenni, Stephen Hawking, autore, fra l’altro di quel long seller che è Dal Big Bang ai buchi neri. A lui il merito di concretizzare il sogno di esplorare il cosmo al di fuori del cortile di casa, se tale può definirsi il sistema solare. Quanto ai costi, sarebbero coperti dallo Starshot Breakthrough, un consorzio che fa capo al magnate russo Yuri Milner e include anche Mark Zuckerberg, il creatore di Facebook. Bel salto, per quest’ultimo, dallo spazio virtuale del social forum a quello infinito delle galassie.
La “vela cosmica” ideata da Stephen Hawking si compone di piccoli moduli spaziali accelerati fino a circa 200 milioni di chilometri all’ora, il 20 per cento della velocità della luce. Giunti in orbita, si aprirebbero in un vero a proprio “foglio”, incredibilmente sottile (pochi atomi di spessore) e largo qualche metro. La vela sarà spinta da una ventilazione artificiale costituita da diverse sorgenti laser, che insieme svilupperanno in pochi minuti 100 gigawatt di potenza, la stessa utilizzata per il lancio di una navetta spaziale. Bisognerà solo stare attenti a mirare giusto. Il minimo errore di traiettoria pregiudicherebbe la riuscita di un progetto che richiede nella sola fase iniziale 100 milioni di dollari. Alla testa dell’iniziativa, Pete Worden, già direttore dell’Ames Research Center della Nasa, coadiuvato da uno staff di cui fanno parte Saul Perlmutter, vincitore del premio Nobel per la fisica nel 2011, e Ann Druyan, la vedova dello scomparso astronomo Carl Sagan.
«L’uomo ha sempre accettato qualsiasi prezzo gli fosse richiesto per le sue esplorazioni e le sue scoperte. Il prezzo dello spazio è il tempo.» Lo scrisse Arthur C. Clarke, scienziato e scrittore inglese al quale si deve l’idea originale di 2001 Odissea nello spazio. Nella sua narrativa fantascientifica tenne sempre conto della plausibile durata di ogni viaggio spaziale che non fosse semplicemente puro sensazionalismo per incompetenti. Mesi e anni per arrivare ai pianeti vicini, secoli per le stelle, con il ricorso all’ibernazione degli equipaggi umani allo scopo di superare artificialmente l’arco troppo breve dell’esistenza biologica. Questo è il problema fondamentale che si pone rispetto a chilometri di universo da esprimersi con le potenze numeriche per carenza di zeri sufficienti.
Assodato che la massima velocità possibile è quella della luce, si è ipotizzato un motore a fusione nucleare, la cui energia scaturirebbe da un reattore. Fin dal remoto 1960, il fisico newyorkese Robert W. Bussard concepì il suo cosiddetto “collettore”. Uno stratoreattore che raccoglie idrogeno mediante un campo magnetico e con questo alimenta la reazione a fusione che genera la spinta del veicolo spaziale.
Alla metà degli anni ’70 prese corpo il Progetto Dedalo della British Interplanetary Society. Si puntava alla costruzione di una sonda priva di equipaggio che avrebbe dovuto toccare il 10% della velocità della luce, giungendo alla stella di Barnard, lontana 5,9 anni luce, entro 50 anni, un ambito compreso nei limiti della vita umana. Anche in questo caso, si sarebbe dovuta sfruttare la fusione nucleare. Questa, debitamente perfezionata, potrebbe sfiorare dall’80 al 99% della velocità della luce.
C’è poi la fisica di Star Trek, per riprendere il titolo del noto volume di divulgazione del fisico americano Lawrence M. Krauss. Come sanno benissimo tutti i fan della serie televisiva, l’astronave Enterprise sbuca dai tunnel che si attraversano a ipervelocità. In fisica ha preso piede la teoria delle stringhe. La struttura stessa della realtà si comporrebbe di “stringhe” o “corde” quanto quella di Planck (1,616×10-35 m), vibranati a frequenze differenti. Di qui la possibilità di superare le convenzioni spazio-temporali. Del resto, a suo tempo, Einstein dimostrò la curvatura dello spazio. Basterebbe trovare delle “scorciatoie” da un punto all’altro e le distanze non sarebbero più invalicabili.
Nel progetto Starshot Breakthrough colpisce soprattutto un elemento basilare. Che nasce dal capitale privato. Finita la Guerra Fredda tradizionale, perfino nel contesto tutt’altro che risolto della geopolitica attuale, il confronto est-ovest non poggia più sui primati scientifici e militari. Quindi la corsa allo spazio è definitivamente archiviata. D’altronde i governi sono costretti a tagliare sui finanziamenti alla ricerca, a causa di una crisi economica di cui non s’intravede la fine e va cronicizzandosi. A parte le ricadute militari della rete di satelliti, l’ansia di tornare sulla Luna e portare l’uomo su Marte non appassiona più. Allora, soltanto il mecenatismo magari non del tutto disinteressato dell’impresa capitalistica sembra capace di rinfocolare l’anelito che animò le grandi esplorazioni e le grandi scoperte. Non fosse altro per viaggiare in sogno, come fece Jules Verne.
Un metodo per compensare la lunghezza dei viaggi interstellari sarebbe quello di lanciare immense astronavi con equipaggi selezionati e la direttiva di riprodursi strada facendo. Come nella vita normale, i padri lascerebbero il posto ai figli e così via anche per centinaia di anni, finché alla meta si troverebbe una generazione di nati nello spazio, completamente diversi dai propri avi.
È l’idea suggestiva di un classico della fantascienza, Universo, di Robert A. Heinlein. La si ritrova anche in un romanzo di Harry Harrison, La città degli Atzechi, dove il giovane protagonista scopre per caso di vivere a bordo di un gigantesco mezzo spaziale che contiene anche la riproduzione del sole.
Più articolato e ricco di riferimenti il melodramma apocalittico de La fine della storia, di Anthony Burgess, cui si deve Arancia meccanica. Il compianto polemista britannico pubblicò nel 1984 questo romanzo straordinario in cui si paventava la fine del mondo a causa dell’impatto di un corpo celeste sulla Terra. Alcuni fortunati sono imbarcati su una titanica astronave dove, una generazione dopo l’altra le memorie del pianeta natale regrediscono a mere leggende e nasce un’umanità del tutto acclimatata al viaggio interstellare.

 

 

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