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Art Ensemble of Chicago, il rito afro del jazz è vivo (e lotta insieme a noi)

Un concerto a Reggio Emilia dei sopravvissuti di una delle più grandi band di free e orgoglio nero è il pretesto per ricordare quanto la musica possa essere ancora politica e sfida al potere

Art Ensemble of Chicago, il rito afro del jazz è vivo (e lotta insieme a noi)
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31 Ottobre 2017 - 14.55


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di Marco Buttafuoco

Tanti anni fa qualcuno vagheggiava che i venti milioni di sottoproletari afro nordamericani fossero l’avanguardia di qualsiasi movimento rivoluzionario del terzo mondo. A sottoscrivere questa tesi, che oggi può apparire bizzarra, non era solamente qualche d qualche “gruppuscolo “ della sinistra extra parlamentare. La sottoscriveva anche Pier Paolo Pasolini che addirittura vagheggiava di far interpretare (cantare) la sua Orestiade Africana a dei musicisti di jazz. L’avanguardia di quell’avanguardia immaginaria erano allora gli Art Ensemble Of Chicago, un quintetto che aveva impresso una svolta alla musica nera. Nei loro dischi e nei loro concerti esploravano le potenzialità espressive dell’allora imperversante free jazz, ma evocavano anche la Madre Africa, il jazz dei primordi, reinterpretavano la musica classica occidentale (Memorabile la loro rilettura del tema di Arianna di Monteverdi). I loro concerti erano veri e propri happening, I cinque salivano sul palco abbigliati con costumi africani e con il volto dipinto, suonavano una quantità incredibile di strumenti e oggetti, cercando sonorità inedite. Erano teatrali, provocatori, radicali.
Hanno suonato insieme fino ai primi degli anni ’90 esplorando tutti i territori della Black Music.  Poi il multi sassofonista Joseph Jarman abbandonò il gruppo. Nel 1999 morì il visionario trombettista Lester Bowie, e nel 2004 il contrabbassista Malachi Flavour.  Roscoe Mitchell, l’altro multistrumentista e anima dell’Ensemble non ha mai voluto però rinunciare all’avventura sonora e ai sogni del gruppo e tenacemente l’ha tenuto in piedi riproponendolo in date sporadiche.  Al posto di Bowie c’è ora il trombettista Hugh Ragin e Junius Paul ha rimpiazzato Malachi Flavour.
La sera del 21 ottobre Il Teatro Ariosto di Reggio Emilia,  per il loro ritorno in Italia. E non solo da reduci degli anni settanta o da anziani appassionati.
Sul palco in maniera del tutto imprevista c’era anche il percussionista senegalese (ma oramai naturalizzato italiano) Dudu’ Kouate con il suo set sterminato di tamburi e oggetti africani. Roscoe Mitchell’ l’ha sempre apprezzato chiamandolo anche, anni fa per un’incisione commemorativa.  
Solo Don Moye, il batterista storico indossava un costume sgargiante, retaggio della gloria del gruppo. Ha raggiunto i suoi tamburi aiutandosi con una stampella. Roscoe Mitchell era in giacca e cravatta, La sua antica magrezza si è accentuata con gli anni e la sua maschera facciale, mai sorridente nelle vecchie foto, è oggi ancora più impenetrabile.
Un’ora e mezza di musica. Il viaggio è partito con una sorta di rito africano in cui gli strumenti hanno evocato i suoni e gli spiriti della natura della natura e di lontananze antiche. Tanto vario e dissonante, atemporale, era il suono del gruppo che a occhi chiusi faceva pensare a musica elettronica.  Poi i cinque hanno esplorato un territorio più propriamente afro americano segnato da improvvisazioni brucianti, cambi di paesaggio sonoro, evocazione dello spirito del blues. Quando alla fine Mitchell ha evocato l’immancabile, bellissimo, tema di Odwalla il pubblico era oramai soggiogato dalla potenza e dall’asprezza della loro musica.  Ma anche e soprattutto dalla forza spirituale della musica stessa. Una spiritualità che non pone confini fra cielo e terra, fra anima e corpo, fra danza e preghiera, fra quotidiano e trascendente. Il primo disco dell’AEOC uscì nel 1969. A distanza di quasi cinquant’anni una formazione quasi nuova è riuscita a incantare senza scendere a compromessi, mantenendo intatta la radicalità delle origini, in un panorama culturale come quello attuale, del tutto diverso da quello degli anni 60 e settanta. Il concerto non ha registrato un singolo calo di tensione, Il legame fra pubblico e palco, lo si avvertiva in sala e lo si coglieva dai commenti all’uscita, non è mai venuto meno.
Altro che reduci. Non so quanti altri gruppi sarebbero capaci di questo risultato, in questi nostri tempi sterili e omologati.

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