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De Giovanni, quando il poliziesco dimentica la realtà

In “Sara al tramonto” la detective Morozzi indaga su un omicidio con l’ispettore Pardo, ma troppi passaggi risultano improbabili

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10 Maggio 2018 - 00.19


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Enzo Verrengia

Se la libertà di scelta si applica anche ai gusti letterari, non è eresia per una volta dissentire dall’innegabile e caloroso gradimento che numerosissimi lettori tributano a Maurizio De Giovanni. I motivi stanno in Sara al tramonto, il nuovo poliziesco dell’autore.
Prima i fatti, poi le opinioni.
Sara Morozzi intriga sulla copertina del libro, dal rimando esplicito ai quadri di Edward Hopper. Una donna dai capelli bianchi, seduta al tavolino di un bar con le luci fioche, le mani strette intorno a una tazza di caffè. Volge il capo all’esterno, oltre la vetrata, capovolgendo la prospettiva di Nighthawks, il capolavoro figurativo di Hopper, dove il punto di vista è al contrario. De Giovanni le costruisce un vissuto problematico. La Morozzi ha lavorato in un reparto speciale della polizia addetto alle intercettazioni. Ha perduto il suo uomo e un figlio. Quest’ultimo, però, prima di morire si è distinto per una paternità postuma. Viola, la sua compagna, è incinta. La Morozzi diventerà nonna. Intanto, si dibatte fra rimorsi e conversazioni immaginarie con la voce del suo perduto amore, come fa il Rocco Schiavone di Antonio Manzini con la moglie uccisa, Margherita, su ben altro registro lirico.
La Morozzi si è ritirata dal servizio. Sennonché una collega, Teresa Pandolfi, le chiede di indagare sull’omicidio di uno squalo della finanza, il cavaliere Molfino, assassinato dalla figlia, Dalinda, tossica all’ultimo stadio e rea confessa. In carcere, la ragazza ha chiesto un incontro con Davide Pardo, l’ispettore responsabile del suo arresto, confessandogli di temere per la vita della figlioletta Beatrice, passata sotto la tutela del fratello Giampiero.
Sara è titubante. Dipendente dagli psicofarmaci, non crede più alla rilevanza di una verità accertata per via procedurale. Lei, che sa leggere a distanza le labbra delle persone e ricostruirne i discorsi, ora preferisce il silenzio. La stimola soltanto collaborare con l’ispettore Pardo, altra materializzazione hopperiana. Insieme a lui finisce per imbastire una controinchesta sul delitto Molfino.
Messa così, non si spiegano i motivi del dissenso dal gradimento della maggioranza.
Eccoli. Perché ricorrere a una ex componente dei Servizi per una vicenda scollegata da intrighi di vasto raggio se non per le frequentazioni discutibili di Molfino? La narrazione, dal fraseggio lineare, a tratti vira d’improvviso nel ritmo sincopato della spy-story, che, lo si ripete qui è limitata solo a circostanze pregresse citate di striscio. Inizialmente, Sara e l’ispettore Pardo non si dànno del tu, preferendo un “lei” atipico alla latitudine partenopea. Bisogna attendere oltre la metà del libro per trovare il “voi” borbonico e le parole mozze dell’autentica napoletanità. Ma a quel punto non suonano del tutto naturali.
L’eccesso di gialli peninsulari sta saturando un genere che va riportato alla misura reale del Paese, liberandolo da segugi improbabili e dall’artificiosità delle fiction. Piuttosto, sia lode ai funzionari delle forze dell’ordine in carne e ossa, ben diversi da quelli inventati, che operano con sacrificio, dedizione e competenza per l’ordine pubblico, preoccupante malgrado le statistiche sul calo della criminalità in Italia.

Maurizio De Giovanni, Sara al tramonto (Rizzoli, pp. 364, Euro 19,00)

 

 

 

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