Il verdetto del maschio italiano: “Se mi lasci ti uccido” | Culture
Top

Il verdetto del maschio italiano: “Se mi lasci ti uccido”

Il carabiniere di Cisterna è solo l’ultimo femminicida. Altro che solare società mediterranea e tesori di famiglia. Come ci dicono libri, scrittrici e scrittori

Il verdetto del maschio italiano: “Se mi lasci ti uccido”
Preroll

redazione Modifica articolo

1 Marzo 2018 - 17.55


ATF

Enzo Verrengia

 

Se mi lasci ti uccido. È il libro di Norma Stramucci sui molti, troppi, casi di separazione coniugale che finiscono con la morte violenta della donna. Come a Cisterna di Latina. Il femminicidio a coronamento di un abbandono che il maschio non vive come libera scelta della compagna bensì come violazione del diritto inalienabile di possesso.
Mia per sempre l’ha scritto sullo stesso tema Cinzia Tani, indagatrice del lato oscuro, anzi nero tenebra, dei sentimenti deviati: «Li chiamano “delitti passionali” perché l’omicida uccide chi afferma di amare, in un impeto di rabbia o di gelosia. Eppure in questi delitti non c’è niente che faccia pensare alla passione come al sentimento che stimola a compiere grandi conquiste, a superare se stessi, a morire per un ideale, ad amare intensamente». Niente che comunque possa prevenire il crescendo di una quotidianità dai picchi di efferatezza.
Una ragazza trasformata in rogo vivente da un accendino. L’assassinio di Sara Di Pietrantonio, compiuto dal reo confesso Vincenzo Paduano, perpetuava due anni fa nell’orrore una cronaca diventata da tempo “la mostra delle atrocità”, per riprendere un libro emblematico di James G. Ballard, compianto narratore inglese del deragliamento occidentale. Sempre in tema letterario, rimanda a I milanesi ammazzano al sabato di Giorgio Scerbanenco, dove Donatella Berzaghi, giovanissima e innocente disabile, viene rapita, sfruttata sessualmente e poi massacrata e bruciata.
Jessica Foro, viene uccisa il 7 febbraio scorso a coltellate da Alessandro Garlaschi, autista di mezzi pubblici e nemmeno suo marito, compagno o convivente, ma solo proprietario dell’appartamento dove la ospitava in seguito a un’esistenza difficile. Come se quell’ospitalità bastasse a sancire l’appartenenza della ragazza.
Il contatore di femminicidi del Tg2 appare in alto a destra sullo schermo, aggiornando il numero delle vittime di una violenza che vuole chiamarsi amore, profanando la parola.
Consiglia il dottor Cesare Monti a chi non si rassegna ad essere lasciato: «Si può provare rabbia, ribellione, protesta, si può urlare la propria disperazione, fino allo sfinimento…[vedere Quando finisce un amore, di Riccardo Cocciante] ma poi la vita continua. Col tempo subentra la calma: si passa pian piano dalla rassegnazione, al fatalismo. Bisogna accettare la condizione umana: ogni bene può essere perduto, anche l’amore di coppia».
Il termine femminicidio risale al 1992, e fu usato per la prima volta dai criminologi Russell e Radford. Il movente più comune consiste nell’affetto elevato a ossessione, specie quando si è incapaci di accettare quella che Igor Caruso ha definito con il titolo del suo libro La separazione degli amanti.
Il femminicidio viene preceduto dallo stalking. Deriva dal verbo stealcian, che nell’inglese arcaico indicava il movimento furtivo di chi tende agguati. Non si contano i siti Internet, ricchi di testimonianze, imbeccate legali e decaloghi di prevenzione, che si possono sintetizzare in due principi: non mostrare timore verso lo stalker e, nel caso di un ex coniuge o compagno, chiarire senza mezze parole che non se ne parla proprio di “ricucire”.
Nel 1997, lo psicologo forense americano Charles Patrick Ewing pubblicò il volume Fatal Families, famiglie fatali, esame sconcertante delle dinamiche omicide all’interno delle mura domestiche. Sulla scorta di esperienze dirette, lo studioso non lasciava dubbi in tema di probabilità statistiche. La convivenza prolungata e forzata di personalità spesso conflittuali, l’insorgere di competizioni ed interessi economici concordano alla formazione di cause scatenanti molto concrete. Cui si aggiungono le deviazioni affettive, lo scivolamento nell’incesto e nella pedofilia. Tesi di un volume ancora più controverso, Soul Murder, l’omicidio dell’anima, firmato nel 1974 dallo psichiatra americano Morton Schatzman e tradotto l’anno successivo in Italia più esplicitamente come La famiglia che uccide.
Molto prima, sull’argomento si era espresso il sudafricano David Cooper, tra i fondatori dell’antipsichiatria. Il suo libro più celebre è La morte della famiglia. Non una rassegna delittuosa paragonabile a quella Ewing, quanto un elenco di considerazioni che approdano al motto «la famiglia è ariosa come una camera a gas». Neanche troppo superato ora che il nucleo essenziale di ogni società va disgregandosi autonomamente nelle grandi metamorfosi della civiltà avanzata. Restano infatti riprovevoli ragioni per uccidere: «Il contratto matrimoniale comporta la sottomissione delle necessità personali ad uno schema-di-tempo imposto dall’esterno».
Dichiara la giallista Gabriella Genisi: «È come se in Italia certi uomini si stessero riprendendo il delitto d’onore abolito per legge. Non accettano il rifiuto, l’abbandono e la preferenza di un rivale, e allora uccidono. Anche perché, con l’immigrazione, oltre a una ricchezza multietnica, arriva anche una tipologia di soggezione della donna. Si ricordi l’omicidio di Hina, la ragazza pakistana colpevole di volersi “occidentalizzare”».
Un’altra scrittrice di noir, Giorgia Lepore, va ancora più indietro con disincanto: «E se cominciassimo (anche) dalla letteratura? Basta con le Anne Karenine che si buttano sotto i treni, e le Bovary, e quelle che si immolano e che si sacrificano e che amano senza riserve. Tutti modelli femminili “immortali” creati dagli uomini. E mica so’ scemi. E noi cretine che abbocchiamo». Negli Stati Uniti esistono centri di accoglienza per donne perseguitate, qual era la Rose Madder del bel romanzo di Stephen King.
Un problema da società avanzata ben diffuso nell’Italia solare e mediterranea che ha saltato tutti i fossi dell’occidente, anche quelli a difesa dagli angoli oscuri. L’espressione in uso è “sindrome del molestatore assillante”. Qualche statistica. Il 55% delle vittime ha un’età che va dai 18 ai 25 anni. Nel 72% dei casi, lo stalking consiste in telefonate anonime, che, a loro volta, vengono effettuate per il 50% da conoscenti e il 20% da partner precedenti. Il 55% delle segnalazioni è incentrato sulle conseguenze psicofisiche, che comprendono ansia, insonnia e postumi da stress. Lo stalking è monitorato dal Comitato Scientifico del Sindacato di Polizia (Coisp), che ha distribuito in provincia di Roma 607 questionati compilati congiuntamente all’Associazione Italia di Psicologia e Criminologia. Altri numeri. Il risultato conferma che l’86% delle vittime è tra le donne.

 

Cisterna, carabiniere uccide le figlie e ferisce gravemente la moglie

 

Lo Stato assente. Il commento di Claudia Sarritzu

 

 

 

Native

Articoli correlati