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Il viaggio al termine del dolore di Yari Selvetella

Lo scrittore e giornalista pubblica “Le stanze dell'addio”, sul percorso finale della compagna. “Tra smartphone e social verso il dolore si oscilla tra il melodrammatico e l’ultraviolento”

Il viaggio al termine del dolore di Yari Selvetella
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15 Gennaio 2018 - 11.29


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Enzo Verrengia

 

«Sapevamo e non sapevamo che potevi morire. Sapevamo e non sapevamo, però allora non mi prendevano per pazzo, per il fatto di sapere e non sapere una cosa. Burocraticamente assuefatti a tutto, i dottori rispettavano i protocolli, niente di più. Al primo vero intoppo cambia tutto, c’è il lusso dell’improvvisazione. Al primo vero intoppo».

È forse questo il picco della tragedia in “Le stanze dell’addio” (Giunti, 192 pp., 2018, € 15.00) la testimonianza dolorosa, lancinante e irripetibile di una perdita personale di Yari Selvetella, che qui dismette i panni del pur appassionato cronista metropolitano televisivo e romanzato per assumere quelli di se stesso, nei giorni in cui si affianca alla sua compagna (l’editor Giovanna De Angelis, ndr) avviata verso il buio perpetuo che chiude il tunnel della malattia. Non certo un’operazione-piagnisteo, di quelle cui indulge troppa fiction e ancor di più un cinema privo di idee, stili e contenuti. Qui c’è la sofferenza vera, che di solito non si riesce a raccontare, mentre Selvetella lo fa, lacerando ogni fibra della sua persona, dentro e fuori. Perciò è inevitabile partire in questa conversazione con lui da una domanda.

1) Come si racconta qualcosa che appartiene intimamente alla propria persona e nello stesso tempo si riesce a condividerla nel quadro comunicativo della prosa?

Ci ho messo quasi cinque anni per decidere sulla pubblicazione di questo libro, e ancora adesso – in tutta sincerità – non sono così sicuro che sia stata la scelta più giusta. Comunque non so se volessi propriamente comunicare a qualcuno, se si sia trattato di un modo come un altro per rendersi conto che i fatti che raccontavo erano realmente accaduti o se, per dirla con espressioni in voga, anche il mio dolore fosse alla ricerca di un coming out. In tempi in cui il male che proviamo viene sempre esorcizzato o imbrigliato nella consolazione o nel patetismo, ho raccontato passo dopo passo questo attraversamento così doloroso.

2) Per quanto tu sia partito da un vissuto che per forza di cose è ascrivibile all’unicità di chi se ne fa carico, viene inevitabile, leggendo Le stanze dell’addio pensare a Il senso di una fine, di Julian Barnes. Conoscevi questo libro? Ti ha influenzato? E se no, hai altri riferimenti letterari?

C’è stato un momento in cui, quasi senza accorgermene, mi ritrovavo a leggere romanzi legati, in un modo o nell’altro, al mare. A parte il continuo ritorno a Moby Dick e a certi romanzi brumosi di Simenon, penso ai racconti di Stephen Crane, ai marinai perduti di Izzo, al Tramp Steamer di Mutis. Un dopo l’altro, senza un piano preciso; questi libri sono stati il mio viatico. Sapevo che il mio era un viaggio attraverso una forma liquida, paurosa, oscura e affascinante al tempo stesso.

3) Tu sei quello che si dice un uomo di comunicazione, ti cali per lavoro anche negli estremi del disagio sociale, dei drammi che sono di tanti. È una severa maestra di vita per poi occuparsi di quelli personali?

Non saprei. Probabilmente sono io un cattivo scolaro. Fatto sta che di fronte a una eventualità remota ma plausibile come la perdita di una persona molto cara, non ero certo attrezzato interiormente come avrei voluto. Questo libro si muove tutto su dei confini, su delle soglie che, non appena varcate, ribaltano la nostra percezione del vero, del giusto e tutto si modifica. Non c’è scuola, non c’è tirocinio, prima. Dopo, semmai, quando il danno è fatto e la tabula è rasa si deve necessariamente familiarizzare con un nuovo lessico, anzi un nuovo alfabeto, e imparare ad andare avanti.

4) Ogni esistenza è insostituibile. Ma che succede quando ad andarsene è una persona non comune, che faceva cultura, scouting e supporto alle criticità della narrativa italiana contemporanea?

Be’ nel nostro Paese muoiono tanti poeti, scrittori e critici senza grandissimi turbamenti. Rimangono i libri fatti e il rimpianto per quelli che non si è riusciti a scrivere. Un’arca, in attesa dei famosi tempi migliori.

6) Si dice troppo spesso “elaborare il lutto”. Ma non credi che certi artifici retorici della psicologia finiscano per negare la psicologia stessa della natura umana? Come si può ridurre a processo interiore codificabile un amalgama di disperazione, impotenza, smarrimento?

Sono etichette che ormai utilizziamo senza rifletterci troppo e poi questo è un tempo in cui si vuole credere che ci sia una ricetta per tutto. Per l’autostima, per il successo, per ottenere doti di grandi amatori, per liberarsi dalle dipendenze in poche mosse e, appunto, per elaborare una perdita: un verbo da modernariato, elaborare, da calcolatore elettronico. Queste nuove retoriche, tuttavia, si riferiscono a un’esigenza sana. Provo tenerezza e non fastidio per chi cerca uno schemino per tutto, spesso invece non troviamo che piccole tessere sconnesse, lacerti, tracce che ci paiono illuminanti e si rivelano false piste e passiamo il tempo a cercare di ricomporre, con alterni successi.

7) La nostra è una società ormai interamente votata all’edonismo, al provvisorio, al fatuo. Balzac a suo tempo prospettò l’emergere dell’educazione sentimentale. Non credi che oggi, nell’imperversare di smartphone, app, chat e social si siano perdute, oltre che la formazione e la cultura, la percezione del dolore, se non come mélo anche ultraviolento da sbattere nella rete?

C’è un fenomeno collettivo di rimozione di un evento così comune, com’è la morte. Io stesso non ero affatto preparato a quello che ci è capitato. Comunque sono d’accordo: si oscilla tra il melodrammatico e l’ultraviolento, per non affrontare i temi più scomodi e più semplici. Temo che sotto sotto ci sia una gran paura, la solita, quella degli uomini che accendevano falò e indossavano amuleti, quella dei riti e dei sacrifici. Non è certo la nostra la prima epoca che si rifugia nell’effimero proprio perché affogata nella contraddizione tra la paura e la sua negazione. “Le stanze dell’addio” non è un libro pessimista. Anzi, è un libro su una rinascita e sulle difficoltà che essa comporta, se si vuole proseguire con serenità senza cedere all’oblio. Un faticoso e fragile equilibrio il cui raggiungimento questo romanzo prova a raccontare.

 

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