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Non dimentichiamo Cassola. Sarebbe un sacrilegio

L'autore della "Ragazza di Bube" fu vittima di sedicenti scrittori. E, poi di se stesso. La sua vicenda letteraria fra Montanelli, Togliatti, la Resistenza, "La ragazza di Bube"

Non dimentichiamo Cassola. Sarebbe un sacrilegio
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13 Gennaio 2018 - 18.05


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Enzo Verrengia

 

Dimenticare Cassola? Sarebbe un sacrilegio letterario in quest’Italia del secondo decennio di un secolo iniziato male, o malissimo, per il romanzo nazionale. Dopo i prodromi allucinanti degli anni ’80 e ’90, quando la narrativa è stata profanata da una genia di sedicenti autori incapaci di concepire e partorire una prosa che riportasse sulla pagina l’eccellenza della lingua e della cultura. Il male, però, veniva da molto più indietro. Da quella “morte del romanzo” decretata da chi, semplicemente, non sapeva scriverne. Cassola ne fu una vittima illustre, prima di maturare un nemico più insidioso, se stesso. Perché dopo “Monte Mario” cedette alla tentazione del surplus e pubblicò troppo. Inoltre disperse il talento della sintesi scritta in polemiche verbose che non arrivarono al grande pubblico e servirono unicamente ad inimicargli quanti, fra gli scrittori, avevano continuato a credere in lui.
Ciò non toglie che oggi è un dovere conoscere, analizzare ed amare la sua produzione vera, quella che va dal dopoguerra alla fine degli anni ’60. Un titolo vale per tutti, “La ragazza di Bube”, con cui vinse il Premio Strega nel 1961.
Partendo dalle sue esperienze di partigiano, lo scrittore sa cogliere il difficile rapporto tra due gio¬vani segnati dalla guerra. Arturo Cappellini, sopranno¬minato Bube, conosce Mara Castellucci, sorella di Sante, un compagno partigiano caduto. Lui vede nella ragazza una presenza femmi¬nile che completa la sua drammatica esistenza. La possibilità di un affetto si contrappone per Bube all’idea della vendetta, che domina ancora i suoi pensieri. Tanto da farne un assassino. Infatti ha ucciso il fi¬glio di un maresciallo dei carabinieri, a sua volta caduto in una sparatoria du¬rante la qu¬ale aveva eliminato un partigiano amico di Bube. Adesso lui è un ri¬cercato. Mentre l’Italia si avvia alla pace e alle libere elezioni, Bube continua a covare l’odio maturato in guerra.
Ma Mara intuisce che dietro la facciata di durezza, il giovane ha una personalità fragile e tormentata. Bube ha scelto di vivere fino in fondo i propri ideali, e questo gli impedisce di crearsi una vita normale. Allora lei decide di provare a offrirgli un futuro, con il suo sentimento. E gli sarà fedele anche quando lui dovrà scontare una condanna di quattordici anni. Perché l’amore per Bube è vero, concreto, mentre le alternative sono le molestie sessuali di un rampollo di buona famiglia o le poesie di un intellettuale. Due uomini che non sanno dare niente a Mara.
Le motivazioni di questo personaggio femminile così vivo e au¬tentico sono costruite fin dalle prime pagine, nelle quali lei incon¬tra l’uomo della sua vita. È una dichiarazione d’amore senza mezzi termini, che non chiede nulla in cambio.
D’altro canto, Bube non resta indifferente. Comprende il valore del senti¬mento che gli viene offerto, anche se non saprà trarne uno stimolo per riscat¬tarsi dal suo destino di uomo braccato dalla legge.
Mara considera Bube una divinità personale da adorare. «Io sarò felice se riuscirò a rendere felice te.» Con queste parole, la ragazza si dà uno scopo di vita che poi rispetterà, anche a costo di attendere che l’uomo sconti la lunga pena cui viene condannato per l’omicidio del figlio del carabi¬niere.
Bube con il suo distacco accentua in Mara la volontà di amarlo, dunque ne precisa le motivazioni. Il giovane non sa manifestare lo stesso entusiasmo della ragazza, preso com’è dal suo carico di tensioni. Però si rende conto dell’importanza di questo sentimento. «Ma anche tu devi essere felice», af¬ferma, togliendo ai lettori il dubbio che sia un egoista, che voglia approfittare di lei. Soltanto che non gli vengono fuori parole più significative. Rimane chiuso in se stesso. Mara capisce che una parte di Bube le sfuggirà per sempre, e questo la lega ancora di più a lui.
Questo bagaglio sentimentale della ragazza tornerà in tutto il romanzo.
Ed è lo stesso di “Un cuore arido”, il romanzo successivo, che ruota intorno ad un’ennesima “Anna” cassoliana. Questa simmetrica rispetto a Bube, in quanto a sua volta polo attrattivo della passione imperfetta di Mario, fidanzato della sorella Bice. Anche qui si ripropone la dicotomia fra sentimenti e caratteri, risolta in una cesura. Mara attenderà Bube che sconta la pena, Anna subisce il distacco da Mario e volontariamente rimane sola, rinunciando perfino a raggiungere l’uomo quando, anni dopo, le chiederà di andare da lui negli Stati Uniti.
Cassola aveva già dispiegato questo meccanismo nei suoi libri più rappresentativi: “Fausto e Anna”, “Il cacciatore”, “Il taglio del bosco”. E malgrado lui abbia a più riprese indicato la differenza fra il periodo dell’impegno e quello del viaggio all’interno dei suoi personaggi, la continuità resta. Nel 1966 Cassola scrisse ad Indro Montanelli, con il quale aveva una grande amicizia, la confessione più eloquente sulla propria personalità di romanziere, riferendosi al “Taglio del bosco”: «Vi facevo il processo a me stesso, cioè a Fausto: presentandolo in due esperienze fallimentari: un’esperienza amorosa (che fallisce per sua colpa, per la sua incapacità di abbandonarsi al sentimento) e l’esperienza dell’impegno politico durante la Resistenza. Qui però finivo quasi per dar ragione a Fausto, per lo meno dargli ragione nei confronti dei comunisti, e questo mi attirò i fulmini di “Rinascita”, prima per mano di un critico, poi di Togliatti stesso. L’accusa era di aver diffamato la Resistenza. Me la fecero anche altri, anche dei non comunisti. Mi amareggiò molto, anche se ero convinto di aver ragione».
Il danno più atroce allo scrittore venne inferto da quanti gli rimproveravano precisamente la sua specificità, quella del narratore genuino, che nello sviluppo della trama riversava una costruzione artistica non esauribile in correnti e mode. Gli veniva dall’infanzia. Cassola lo ricorda nel suo “Diario”, scritto in terza persona: «… bastava un nome a emozionarlo, a mettergli in moto la fantasia, col risultato di allontanargli spesso e deprezzargli tutto ciò che sapeva di reale e obbediva a ragioni pratiche.»
Infine, il paesaggio. Romano di nascita, Cassola aveva una madre di Volterra, città del vento e delle pietre antiche. Oggi James Hillman parlerebbe di anima dei luoghi. Le migliori vicende raccontate da Cassola si svolgono in quei paraggi, soprattutto nei prolungamenti rivieraschi della zona: Cecina, Marina di Grosseto e dintorni. Località che ora tornano periodicamente a lampeggiare in rosso sulla mappa del disastro idrogeologico italiano. Strana sincronia con l’obsolescenza cui viene condannato Cassola. In realtà ciò che nei secoli è giunto dell’Etruria serba una risonanza misterica che lo scrittore tradusse in linearità del racconto. Tutto ciò che giace ancora nel sottosuolo etrusco ed alimenta l’avidità dei tombaroli, nelle opere di Cassola diventa repertorio di dialoghi, descrizioni e nessi che reggono ad ogni fuggevole mutamento esterno. Non reperti archeologici, dunque, bensì monumenti narrativi.

 

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